Alla memoria di Leo Wellesz, nato e morto nel Campo di Ferramonti di Tarsia nel 1943

Ferramonti di Tarsia, 27 Gennaio 2023                                                                    Adriano D’Amico

In questi anni sono stato più volte a Ferramonti di Tarsia, li dove un tempo, non molti anni fa, ci fu un Campo che recluse, offese ed umiliò più di 2 mila persone nel corso di un quinquennio; ci sono andato con lo stesso spirito di quando mi reco al Camposanto per far visita ai miei cari; non mi interessava il museo in se, le foto, gli ambienti ricostruiti, la corrispondenza fotocopiata e riposta nelle bacheche; nulla di tutto ciò; volevo calpestare la stessa terra che hanno calpestato quegli esseri umani, provare a respirare la stessa aria, provare ad immaginare lo stesso orizzonte; cercare in quelle pareti di pietra, in quella terra, in quell’aria, qualcosa che potesse farmi sentire per un attimo, per un solo attimo, uno di loro; ma cammina, cammina, avanti, indietro, a destra, a sinistra, non ci sono ancora riuscito; ed i miei pensieri, ogni volta, erano confusi e tristi.

Recentemente ho associato alla visita al Campo quella al Camposanto di Tarsia, e più precisamente al Cimitero ebraico esistente in quel luogo. Illuminato dalla guida e da qualche saggio consiglio di chi prima di me c’era stato, dopo aver attraversato un pertugio tra due pareti che ospitano defunti “italiani”, ho trovato quello che cercavo. Certo l’impatto è stato abbastanza forte; in uno spazio angusto, addossate alle mura di cinta di solide cappelle gentilizie, giacciono 4 sepolture; al posto del marmo le ricopre il muschio, segno dell’incuria umana e, in questo caso, della solitudine, che non è, per ciò che ci attiene, quell’isola benedetta tanto cara al Poeta, ma il contrario; dove la lapide che ricorda al viandante la sepoltura, è in pezzi, ed in una delle quattro non compare affatto. Sui bordi delle meste sepolture, si notano alcune pietre riposte, simbolo di un antichissimo rituale ebraico, che lascia intendere che qualche volta, tanto tempo fa, le sepolture sono state visitate; sulle loro tombe gli ebrei depongono sempre pietre al posto dei fiori per ricordare i loro cari e anche le origini del loro popolo; la pietra, per la tradizione biblica ebraica e nel significato del termine, ha un valore simbolico: “eben” in ebraico significa pietra; poco più avanti, in questo percorso quasi guidato dalle mura delle cappelle gentilizie sorte li intorno, una lapide ormai illeggibile, ed altre quattro sepolture sui due lati.

La mia attenzione è stata subito attratta dalla lapide di una delle quattro sepolture ivi collocate, quella di Leo Wellesz, nato a Ferramonti, proprio in quel non luogo, il 2 gennaio 1943 e morto ivi il 4 aprile del 1943, qualche giorno prima della “Liberazione”; è collocata sul lato sinistro per chi arriva in quel luogo. E’ la “indegna” sepoltura di un bambino di 4 mesi, nato e morto nel Campo di Ferramonti. Che tristezza! Da farti venire i brividi lungo la schiena; ma, soprattutto, i pensieri nella testa; tanti pensieri, il primo, fra i tanti, a quei bambini che tutti i giorni muoiono per la guerra, per la fame, incolpevoli più di altri esseri umani, proprio per la loro assoluta inconsapevolezza; poi, le solite domande, su chi fosse; su chi fossero stati i suoi genitori, i suoi parenti; sarà stato un parente di quel Egon Joseph Wellesz, nato a Vienna il 21 ottobre del 1885 e morto ad Oxford il 9 novembre del 1974, musicologocompositore e insegnante austriaco, allievo prediletto di Arnold Schönberg, ebreo anche lui, ma che durante il nazismo riuscì a fuggire in Inghilterra? Chissà! Di sicuro era un bambino, che oggi avrebbe 80 anni, che avrebbe potuto dare alla sua vita un senso diverso; ed invece, dalle ingiustizie umane ha ricevuto la Morte.

Più sotto, sullo stesso lato, la lapide di Hugo Meitner, che era nato il 10 novembre 1889 a Ung Bred e morì a Ferramonti il 13 ottobre 1941. Sul lato destro la lapide di Josef Richard Goldstein; che era nato a Cottbus il 13 novembre 1874, e morì a Ferramonti il 10 gennaio 1943; più sotto, la lapide di Richard Trostler, che era nato a Vienna il 23 ottobre 1878 e morì a Ferramonti il 23 novembre 1944. Pensavo, rileggendo le iscrizioni apposte su quelle lapidi, allo strano destino di questi esseri umani: Josef Richard Goldstein era nato a Cottbus, una città tedesca di quasi centomila abitanti, al confine con la Polonia; morì a 79 anni a Ferramonti, una frazione di Tarsia, un piccolo comune calabrese in provincia di Cosenza; Richard Trostler, invece, era nato a Vienna!!! Morì anche lui a 66 anni a Ferramonti di Tarsia. Pensavo ai loro destini, ai loro sogni, alle loro vite; tutto spazzato via da una forza bruta, cieca, inumana, seminatrice di morte, odio, violenza, il nazi-fascismo; che, ahi noi, ancora oggi ha epigoni in Italia e nel mondo, spesso travestiti.

Il professor Mario Rende, dell’Università di Perugia, ha pubblicato un pregevole saggio per Mursia (Mario Rende-Ferramonti di Tarsia. Voci da un campo di concentramento fascista. 1940-1945) sul campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, città d’origine della sua famiglia; ed è tra i pochi a parlare anche del Camposanto; egli ricorda che, in base ad atti documentali, nel cimitero di Tarsia sono stati sepolti 16 ebrei provenienti da Ferramonti; che attualmente, però, solo quattro tombe sono ancora lì; “… le altre 12 furono traslate abusivamente negli anni Cinquanta e Sessanta per fare spazio alle tombe dei cittadini del posto, nonostante che le famiglie degli ebrei scomparsi avessero regolarmente acquistato il lotto di terreno nel cimitero con la garanzia che non venissero esumati i corpi. Questa condizione non fu rispettata dalle autorità locali di allora e molto probabilmente le loro ossa furono collocate nell’ossario comunale e le loro lapidi furono distrutte …” (SIC!).

Lo stesso professore fece ripulire a sue spese le tombe per rendere almeno visibili i nomi dei deceduti; nel cimitero di Cosenza è riuscito, addirittura, a far collocare una targa che spiega perché le tombe sono lì e cosa significano i simboli incisi sulle lapidi; ricordiamo che alcuni degli ebrei sepolti erano stati passeggeri del famoso battello “Pentcho”, che nel 1940 aveva tentato invano di raggiungere la Palestina da Bratislava, attraversando tutta l’Europa; dice il prof. Rende: “… Era un dovere morale. Gli abbiamo tolto la libertà, sono morti in una terra non loro e gli annulliamo anche il nome per non pulire una volta tanto la loro lapide”.

Lo stesso Rende, attraverso una ricerca negli archivi di Cosenza e di Tarsia, ha ricostruito con nomi e date di morte il percorso terreno dei 37 ebrei sepolti nei cimiteri delle due città calabresi: “… Ci potrebbero essere discendenti o parenti che magari cercano i loro cari e non sanno che sono sepolti in Calabria”.

I nomi registrati nel cimitero di Tarsia nell’elenco dei sepolti, anche se le sepolture non sono più presenti, a suo dire, sono i seguenti: Josef Richard Goldstein, Stefan Greiner (o Greiwer), Erwin Guen, Hugo Meitner, Franjo Milic, Kugo Muller, Adolf Robichek, Max Rosenberg, Jetty Steiner, Andrej Umek, Ilona Weiss in Rosinger, Leo Wellesz.

“Sarebbe bello … ”, diceva il professore “… Se il comune di Tarsia si facesse carico di un piccolo monumento nel cimitero, ricordando tutti i nomi degli ebrei che sono stati lì sepolti. I comuni di Cosenza e Tarsia potrebbero poi supportare economicamente un piccolo gesto di amore per queste persone: prendere un po’ di terra di Israele e metterla attorno alle loro tombe; prendere qualche sasso da Israele e metterlo sopra le loro lapidi; supportare la visita annuale di un rabbino che possa fare una preghiera sulle loro tombe…”.

Altre interessanti notizie rinvenute sul luogo, riguardano gli appunti di un viandante, forse un ebreo americano, che  così scriveva a proposito del Camposanto di Ferramonti: “Il cimitero cattolico attivo ha l’ultima sepoltura ebraica conosciuta nel 1940-45. [Chiesa cattolica di San Pietro e Paolo, 87040 Tarsia, Cosenza CS, Italia. Telefono da US 011-39-981]; l’internamento di ebrei avvenne a Ferramonti, a circa 6 km dal paese di Tarsia, ovvero 20 minuti a sud sull’Autostrada A3, più vicino alla città di Cosenza dove il fiume Crati e l’A3 si incrociano. Ferramonti era un campo esistito dal 1940 al 1945, utilizzato per ebrei (apparentemente diretti in Palestina ma catturati qui durante la seconda guerra mondiale) e molti altri, compresi i cittadini statunitensi intrappolati allo scoppio della guerra. C’è un muro che commemora coloro che morirono in quel campo. Dopo la guerra, le loro famiglie dissotterrarono tutti tranne quattro degli ebrei sepolti lì dal 1940 al 1945. Queste quattro sepolture ebraiche sono in singole tombe interrate. Le quattro sepolture ne includono una illeggibile. Sul muro si legge “In memoria dei naufraghi del Pentcho ‘internati a Ferramonti e deceduti dal 1942-1944“.

A suo dire, le sepolture ebraiche dissotterrate elencate sono:”… Ungar Josef, Guen Erwin, Gross Ignatz, Halperin Fischer Zahava, Wald Schaghne-la “g” potrebbe essere una “c”, Weissberger Shmuel, Weil Paula, Neumann Strelinger Magoi, Furst Shraga, Freund Albert, Feller Eugen e Rosinger Weiss Ghavna.

Ai lati sono presenti alcune piccole targhe: “… 1. Richard Trostler, nato il 23/X 1878 a Vienna, morto il 23/III 1944; 2. Joseph Richard Goldstein, nato il 13/II o III 1874 a Coltbus, morto il 10/I/1943; 3. Hugo Meitner nato il 10/XI 1888 Ung Brod, morto il 13/X 1941; 4. Leo Wellesz, nato il 2/I 1943 a Ferramonti, morto il 4/4/1943…”.

Ho pensato, allora, a chi serve, oggi, il Campo di Ferramonti? Sicuramente a chi, in questo ingorgo culturale che è diventato, continua a far finta di niente; per esempio, alle istituzioni, che continuano ad associarlo impropriamente ad Auschwitz ed a festeggiarci, comodamente, il 27 di gennaio, la Giornata della Memoria; li, in quel posto, dove ci sarebbe da festeggiare, semmai, il 25 Aprile: “… Non perché in quel giorno che fece da spartiacque della storia d’Italia, nel campo di Tarsia sia avvenuto qualcosa di significativo – dice in una recente intervista Spartaco Capogreco, docente di storia contemporanea nell’università della Calabria -. nell’aprile ’45, infatti, i reclusi di questo lager erano già da tempo al riparo dalle persecuzioni nazifasciste. Tuttavia, sul piano simbolico, storico ed istituzionale la festa della Liberazione è il giorno in cui commemoriamo la vittoria delle forze partigiane sugli orrori del fascismo, un momento ideale per attualizzare il ricordo di Ferramonti”.

E’ vero, non ho trovato quello che cercavo a Ferramonti di Tarsia, ma ho ritrovato in quel groviglio di storie confuse, l’emblema della nostra terra di Calabria; anche i miseri interessi di politicanti di bottega per determinare l’originaria perimetrazione dello spazio; uno spazio che prima di allora era stato comunque devastato e saccheggiato dall’incuria; e poi da chi ha inteso applicare in maniera precisa la rimozione della Memoria.

Oggi qualcosa si muove nel coacervo di storie che è diventato il Campo: tra le ferramonterie, come simpaticamente le chiama il prof. Spartaco Capogreco, che, con il suo libro, ha avuto senza dubbio il merito di riaccendere le luci su una narrazione riduttiva e monca, ma necessaria per coprire le responsabilità del fascismo, perché di questo si tratta, Teresina Ciliberti, la direttrice del museo, che mi ha impressionato positivamente; la sua tenacia, tipica degli arbereshe di Calabria, mi fa ben sperare; forse si potrà scrivere una nuova Storia in questo lembo di mondo, in questo limbo di vita; forse, e finalmente, chi, come me tornerà a Ferramonti, potrà toccare l’immaterialità della Memoria, un sentimento rivoluzionario, un vaccino contro l’indifferenza.