Bandiere gastronomiche: ma Cosenza ce l’ha una identità culinaria?

Pasta dish with chickpeas and chilli.

Tante volte parlando di cucina con amici e buongustai, mi capita spesso, ad un certo punto della discussione, generalmente quando affrontiamo l’argomento “identità culinaria”, di incorrere nel gioco della “bandiera gastronomica” che consiste nel rispondere ad una domanda: se ti dico questa città, questa regione, qual è il primo piatto che ti viene in mente? Ad esempio: quali sono i piatti che conosci e che immagini “stampati” iconograficamente su un’ipotetica bandiera gastronomica, ad esempio, dell’Emilia Romagna? La risposta scatta in automatico: tortellini, parmigiano, lasagne, prosciutto, bolognese, solo per citarne alcuni e tra i più conosciuti al mondo. Più che una bandiera bisognerebbe fare un lungo striscione per rappresentarli tutti.

C’è da dire che quando si affronta l’argomento “origini del cibo”, stabilire con precisione, tranne alcuni rari casi, l’inventore di questa o quella tecnica culinaria, o di questo o quel processo di “trasformazione delle materie prime”, è difficile. Spesso si ricorre, per “ancestrali alimenti”, alla leggenda. Le fonti storiche e i ritrovamenti archeologici possono confermare il luogo e l’epoca dove si consumava una determinata “libagione”, ma non possono identificare l’antico chef che l’ha creata. Se è un nome che vogliamo dare all’inventore del piatto. Questo vale almeno fino a quando qualcuno non ha pensato bene di inventare il “libro delle ricette”, e da allora quasi tutte le preparazioni gastronomiche hanno un nome e un cognome. Ma prima di quel momento chi può dire con precisione chi è stato, ad esempio, il primo panettiere al mondo che ha sfornato, dopo averlo fatto lievitare, il primo pane?

Certo, gli studiosi ci dicono che tale storico avvenimento è accaduto quasi 3000 anni fa in Egitto (per quel che riguarda il mondo occidentale), ma non possono dirci chi è stato il primo panettiere che a quell’epoca ha capito, senza microscopio e provette, il processo chimico della lievitazione. Una scoperta che, come ci dicono gli studiosi, è avvenuta solo dopo tanta osservazione e sperimentazione, che sono le basi del metodo scientifico, perchè la cucina è scienza. È chimica. Ma anche alchimia, l’antico pentolone delle streghe dove ogni ingrediente ha un suo specifico “potere”. La zuppa elfica che nutre le creature del bosco. La pozione del mago che annulla i malefici. Mescolare gli ingredienti è cosa davvero antica, e oso dire magica, che ha aperto le porte del gusto all’umanità. Tutte le cucine del mondo discendono dal primordiale focolaio dove, l’uomo, ha esposto per la prima volta al fuoco, il cibo che mangiava. Nutrirsi è connesso alla vita, e lo fanno tutti gli esseri viventi, ma nutrirsi con gusto è solo cosa umana. La cucina è ricerca sempre in continua e costante evoluzione, ma che non può slegarsi da questa lunga e antica storia. E non è certo un caso che quando si parla di bontà e qualità del cibo, il rimando è sempre alla cucina di una volta, quella antica, quella della nonna, la cucina dei profumi e dei sapori che suscitano emozioni.

Prima di ritornare al gioco della bandiera, giova intendersi sul significato di piatto tipico, senza dimenticarsi che tutti gli italiani sono figli della “Dieta mediterranea”: un “piatto” si definisce tipico di una determinata area geografica quando la tecnica di preparazione e cottura della pietanza è riconducibile, per unicità nell’esecuzione, al patrimonio gastronomico della comunità che la abita. Tendendo sempre presente, però, che tutto ciò che è definito tipico è il frutto dell’evoluzione, nel corso della storia, dell’arte culinaria. Un esempio: tutte le cucine del mondo hanno nel loro “menù” piatti a base di interiora di questo o quell’animale. Tutti fannu u spezzatinu, ma nessuno può dire l’ho inventato io. I piatti a base di frattaglie, o quinto quarto, sono “patrimonio gastronomico dell’umanità”. Ciò che rende tipico il piatto non è certo l’identità della materia prima, che è uguale per tutti, ma come questa viene lavorata, speziata, abbinata ad altri alimenti, e cucinata. E poi un conto sono le peculiarità agricole e zootecniche del territorio, un altro è come i maestri di cucina trasformano i prodotti. Non basta avere il bergamotto più bello del mondo, la ‘nduija, e la cipolla di Tropea, per costruirsi una identità culinaria. La costruzione di un piatto necessità soprattutto di creatività.

Il gioco: senza enunciarle tutte, se ti dico Firenze, cosa ti salta in bocca? Io dico: ribollita e fiorentina. Bari: orecchiette e cime di rapa. Caltanissetta: il cannolo siciliano. Genova: trofie al pesto. Venezia: fegato alla veneziana. Roma: carbonara, cacio e pepe. Matera: gli gnummiredd, i peperoni cruschi. Lecce: Ciceri e tria, anche chiamata Massa di San Giuseppe, Lajana e ciciri o Massaciciri. Napoli: pizza, spaghetti e mandolino.

E se dico Cosenza cosa ti salta in bocca? Per tutti i cosentini i piatti più rappresentativi della nostra identità culinaria sono: lagana e ciciari, vruccuali i rapa e sazizza, pasta e patate ara tijeddra, patati ‘mbacchiuse, mazzacorde, purpetti, giancaleone. Questi i più famosi. Ma a leggere la storia di questi piatti un forte dubbio mi assale, siamo sicuri di poter rivendicare la creazione di queste pietanza senza  essere accusati da qualcuno di plagio?  Ai posteri, e ai maestri di cucina cosentini, l’ardua sentenza.

Michele Santagata