Calabria 2020, la favola del Re Montanaro

LA FAVOLA DEL RE MONTANARO

C’era una volta un Re, tutto pieno di se; non era bello a vedersi, la natura era stata poco clemente con lui, sebbene lo avesse dotato di un’intelligenza sopraffina. Non aveva sangue blu, era un semplice contadino, ma nel suo ego coltivava l’idea di diventare un giorno Re delle montagne, delle valli, delle pianure e dei mari. Sin da giovane si mise all’opera nella sua enclave, raccogliendo, dietro promesse e prebende per i suoi cortigiani, i consensi necessari al titolo di Grande Feudatario. Il sogno si stava avverando! E la sua fama crebbe e si diffuse nella Calabria Citra!

A furore di popolo, i grandi Feudatari delle pianure, e dei sette colli, decisero la sua investitura dietro giuramento di fedeltà e sottomissione al suo potere. Egli accettò con gioia ed entusiasmo e fu proclamato dai Principi di Arintha Signore indiscusso ed assoluto con il nomignolo del  “Re Montanaro”. Stabilì la sua corte nell’antico palazzo alle pendici di Colle Pancrazio, mentre la sede di Montagna fu trasformata in dimora di caccia e il territorio natio lasciato ai suoi più fidi servitori, a garanzia e protezione della Roccaforte Florense. Negli anni di reggenza della Calabria Citra, il Re Gioachimita si distinse per la creazione di nuove strade, la TranSybaris e la TransAcheruntia, e per aver favorito lo sviluppo rurale e boschivo. Diede grosso impulso a sontuose manifestazioni popolari come le Sagre e le Transumanze: per il Re ogni paese doveva avere il suo evento per la promozione dei prodotti locali, durante il quale fare scorrere vino in abbondanza! Si narra che egli fosse sempre presente e che in prima persona saggiasse le delizie delle tavole e delle coppe, un vero Dionisio!Egli riusciva in tal modo a garantirsi la fedeltà dei sudditi, affinché nulla si muovesse senza il suo consenso. E’ merito suo se le Montagne Silane hanno mantenuto nei secoli lo splendore arcaico e primordiale, vedendo salvaguardate flora e fauna. Con acuta scaltrezza sottomise le popolazioni affidando ai loro rappresentanti, vassalli, valvassori e valvassini, incarichi di corte, sollazzandoli e distraendoli con passatempi e privilegi in modo che non intralciassero i suoi disegni di grandezza. Il suo regno era sotto il controllo delle Giubbe Verdi, mentre a protezione del suo feudo c’era la Gendarmeria Provinciale, cavalieri di alto rango. Sostenuto dai Potenti delle Pianure e  dalle Signorie di Stanza a Roma, con l’appoggio dei potenti della Calabria Ultra, venne nominato anche Re delle CalabrieNel giorno della sua investitura alla carica reale,  nel salone degli specchi della Real Reggia di Germaneto, circondato dai suoi familiari, davanti alla sua vasta Corte, giurò:”In questi 5 anni, che saranno anche gli ultimi del mio lungo regno, con l’aiuto di Dio, e dell’Abate Gioacchino, risolleverò i destini di questa terra ! “.  Continuò, asservito al verbo di potenti e potentati, l’ opera di assoggettamento delle popolazioni, riducendole in uno stato di perenne necessità, in cui ciascuno fosse pronto a vendersi all’occorrenza per un tozzo di pane. Situazione ben diversa nella sua Corte, dove riconoscimenti nobiliari e concessioni di feudi  assopivano la capacità di discernimento dei ricchi servitori e dei loro familiari.

Nell’ultimo scorcio del suo regno, il Re, seppur inviso al popolo, non diede dimostrazione di cambiamento; continuò con gli sprechi e a regnare come un despota. La presenza di una concubina a Palazzo ne ingigantì manie ed ambizioni. Si narra che una volta e in età molto avanzata, preso da un delirio di onnipotenza, nel quale si convinse d’esser Re Artù,  convocò,  nell’attuale pianura di Lamezia, tutti i Signori delle Calabrie attorno a una tavola rotonda (detta Palla-Palla per via dei due cerchi incisi sul tavolo che ricordavano al Despota le sue origine florensi); ebbene, in quella occasione, egli riuscì a riunire 69 dei più grandi elettori, che giurarono fedeltà  al Sovrano delle Calabrie, dimostrando ancora una volta come fosse lui il predestinato alla sua stessa successione e non i suoi nemici che, rammentando il giuramento fatto al momento del suo insediamento quattro anni prima, erano contrariati dalla sua autocandidatura.Del resto, i suoi avversari avevano ben intuito quanto dietro tanta presunzione, spavalderia e ostentazione di potere, ci fossero altri intrighi di palazzo, nonché la distribuzione di prebende a piene mani. Egli continuò a regnare con disprezzo e tirannia, nonostante il popolo ormai stanco delle sue nefandezze e delle promesse disattese, gli si rivoltasse contro.

La sommossa partì proprio dal suo paese natale, il Re, per non cadere nelle mani degli insorti, si rifugiò nella località Carlo Magno con una manciata di fedelissimi. Percependo ormai prossima la sua fine, supplicò l’abate Gioacchino di salvargli la vita; la risposta del Santo non si fece attendere, gli comparve in sonno e replicò: “Il  tuo tempo è scaduto, la tua condotta di uomo e di sovrano è stata immorale e spregiudicata!! Hai portato in rovina la tua gente, la tua terra! Hai raccontato menzogne e raggirato il tuo popolo! La tua esperienza finisce qui!!”. Dopo quella notte, l’inviso Re Montanaro cominciò a dare segni di demenza senile, segretamente venne rinchiuso dai suoi nel Convento dell’Abbazia Florense e di lui non si seppe più nulla.