Castrovillari, Saverio La Ruina: metti un giorno, in Via del Popolo

Metti un giorno, in Via del Popolo.
La Ruina torna nella sua Calabria per un racconto di un luogo, una famiglia, un’Italia che non c’è più.
Di Maddalena Oliva
Fonte: Il Fatto Quotidiano 
Veramente vuoi fare uno spettacolo su 200 metri di strada, quelli che portano dalla traversa di casa tua a via Roma?”. È dalla terrazza di casa dei suoi che vediamo affacciarsi Saverio La Ruina per questo ultimo dolcissimo e poetico viaggio nella sua Via del Popolo, una piccola strada a Castrovillari, cittadina dell’alta Calabria dove l’attore e regista – una delle due anime della compagnia Scena Verticale che a Castrovillari organizza da anni il festival “Primavera dei Teatri” – ancora oggi vive. Proprio lì, a cento metri da quel bar Rio che il padre e lo zio di “Savè” si comprarono negli anni Sessanta, firmando così tante cambiali da poter tappezzare l’intero locale: due montanari diventati cittadini, “passando da un lato all’altro della montagna”, e al tempo stesso stranieri. Per loro, “Castrovillari era l’America: c’erano scuole, uffici, ospedale, tribunale, tutto”. E per Saverio che, bambino, aveva raggiunto papà e zio Nicola scendendo da un camion la montagna del Pollino di notte, “Castrovillari pareva un luna park: piena di macchine, luci, negozi, gente. Erano gli anni 60, ma mi pareva di essere arrivato a Little Italy negli anni 30”.
“L’adolescenza – scriveva Corrado Alvaro, calabrese – è una riserva per gli anni in cui la fantasia avrà cessato di parlare”. Sono luci che si rincorrono. Come dei flash. Quelle dei flipper del bar Rio in cui Saverio ragazzino impara a fare i primi caffè. Quelle del cinema Ariston, il più grande della città, dove si innamora della settima arte. Quelle del televisore che era solito rompersi quando c’era Rischiatutto, e doveva arrivare Giannino l’elettricista a dare il colpetto magico. La luce della cucina in casa, segno che papà era rientrato. La luce negli occhi di mamma, quando papà lo ritrovarono un giorno e mezzo dopo averlo perso. La luce dei lumini al cimitero: “Savè, t’u ricòrdi si a quistu?”. E che diventano le saracinesche che si abbassano su via del Popolo. Di Zu Ntoniu che vendeva i fichi a paletta, di Pino del Ristorante Pino, di De Simone il bigliettaio del cinema che ha lasciato il posto a un parcheggio, di Rita dell’alimentari, di Mastu Giovannu il sarto, di Tonino della macelleria che stava proprio di fronte a casa: per ognuno di loro il tempo è passato. Ma il teatro, la scena, è il luogo dove tutto vive e il tempo non passa o, meglio, può andare avanti e indietro, può fermarsi e rallentare.
Basta far partire il cronometro, quell’Omega anni 70 che Saverio aveva ricevuto in dono da zio Nicola: “Tè, Savè, cu quistu si patronu d’u tìampu, u poi firmà, u poi fa jì annanti e u poi fa jì arrìatu, insomma ci poi fa quiddu chi vùai”. Lo stesso con cui l’artista, dalla terrazza di casa, cronometra i due uomini che percorrono quei 200 metri di via del Popolo: un uomo del presente, che impiega due minuti, e uno del passato che, di minuti, ce ne metta trenta. Perché l’uomo “30minuti” appena gira l’angolo si ritrova davanti tutte le voci e le storie che abbiamo imparato a conoscere in questo viaggio che La Ruina fa non solo nella sua adolescenza, ma nell’Italia di una volta oggi divenuta, specie nei suoi piccoli centri, un deserto di solitudini. In un tempo che in una regione come la Calabria anziché andare avanti sembra muoversi all’indietro.
“E di cosa tratta l’ultimo spettacolo?”, chiede a Savè il padre, oggi scomparso. “Di te, e di via del Popolo, papà”. “Chi bella via del Popolo, a via nosta. Ne abbiamo consumate di scarpe…”. “E non lo vuoi vedere lo spettacolo?”. “Sarebbe bello, Savè, ma u tìampu un c’è”. “Sì, che c’è”. E Savè tira fuori il suo vecchio Omega, consumato.