Come sarà l’Italia dopo il Coronavirus? (di Saverio Di Giorno)

di Saverio Di Giorno

Una realtà nuova è difficile da analizzare. Possiamo misurare il tempo con l’orologio e le distanze con il metro (più o meno: qualche fisico avrebbe da ridire), ma se la strada diventasse elastica avrebbe ancora senso misurarla con un metro? La situazione che viviamo, almeno per le ultime generazioni è esattamente questo: una realtà che muta; e noi conosciamo le reazioni delle persone (e anche qui gli psicologi avrebbero da ridire) in situazioni che appartengono alla normalità. Ma se cambiamo le regole del gioco? Che strumenti abbiamo?

Diventeremo più solidali? Riscopriamo cose perdute? Ci chiuderemo? Gettiamo le basi di una nuova società? Su tutto si può discutere. In pochi metri quadrati e senza possibilità di incontrarsi, gli unici strumenti che abbiamo sono due: i libri e il corpo. Quindi mi sono affacciato dalla finestra, pensando a varie pagine e ho iniziato a lavorare.

I maestri che hanno visto e raccontato l’uomo in situazioni al limite sono sicuramente un aiuto. In questi giorni si sono moltiplicate i riferimenti a Camus, Saramago e altri autori meno pop. Io ne penso un paio, Hemingway e Dostoevskij. Quest’ultimo in particolare.

Un essere che si abitua a tutto: è la migliore definizione che si possa dare dell’uomo.

Sono perfettamente d’accordo. Voglio dire: negli abissi della nostra coscienza collettiva ci sono le polveri degli ebrei bruciati nei campi di concentramento e sopra di queste ceneri si sono adagiati corpi annegati dei bambini siriani. Nulla di tutto questo ha creato uno shock particolarmente grave, perché dovrebbero farlo le colonne di bare a Bergamo? Le pulsioni di morte le conosciamo da sempre, dalla nascita. Le forze della morte fanno parte di noi come quelle della vita e mai come le persone del nuovo millennio non fanno altro che nasconderle per esaltare la vita (palestre, creme, chirurgie plastiche ecc.) forse proprio perché questi grandi traumi storici non creano shock, ma lentamente cambiano l’uomo facendogli una corazza. Siamo allenati a far finta che la fragilità e la mortalità non siano cose che ci riguardino.

Questo i maestri, e il corpo? Affacciato sento solo il canto degli uccelli (finora da Bologna non ne avevo mai sentito) e sento un cielo più terso. Potrei anche pensare che questo canto degli uccellini sia il canto della rivolta della natura che si riprende navigli e canali. Sia il canto dei carcerati e delle altre categorie disagiate che trovano modo di far sentire le loro ragioni. Sia in definitiva la musica di una nuova società dove finalmente sviluppo tecnologico e sostenibilità trovino un equilibrio e si possa parlare dei luoghi più deboli: il sud e la sua sanità, i carceri appunto e altri. Ma poi se gli uccelli tacciono si sente silenzio e suoni di sirene. E allora no. Questo mondo le persone non l’hanno scelto, l’hanno subito. Una costrizione.

Anzi forse la dicotomia apparirà più aggressiva in alcuni animi: più natura significa più rinunce e mai come ora la libertà appare identificata totalmente negli aperitivi. Il trionfo del consumismo. A proposito di maestri. Quelli della scuola di Francoforte o anche Pasolini: se non cambia la struttura economica non cambia niente. L’umanità non è che un suo prodotto.

E poi un calabrese sa benissimo che da chi è in una posizione disagiata, ma riesce comunque a sbarcare il lunario, non verrà mai alcuna indignazione o scatto liberatorio. In chi ha solo qualcosa serpeggiano sentimenti negativi (invidia e vergogna) e la loro disperazione in tempi di crisi si trasforma in fede. L’unica speranza è chi ha molto (denaro e quindi tempo per approfondire lucidamente) o chi non ha nulla.

Ma poi siamo sicuri che questo cambiamento ci sia? Il modo per rispondere a questo grande problema, non è lo stesso identico di quello che si usava prima per altri (droga, migranti) ovvero la militarizzazione e lo Stato di Polizia? Ora tutti lo invocano: è questa la grande responsabilizzazione e senso civile? Aver perso definitivamente fiducia negli altri e nel loro giudizio?

Un mondo che si scopre fragile al punto di fermarsi per un’epidemia e messo in crisi nei suoi ritmi siamo sicuri che sia un mondo diverso da quello di prima? Prima non avevamo un mondo nel quale era impossibile programmare alcunché perché in preda a oscure forze finanziarie o ambientali che nessun governo può arginare? Se non lo vedevate in questo modo forse è perché avete avuto 20 anni negli anni 80 e non nel 2020. Non a caso salvo qualche narrazione, i giovani sono stati i primi ad adattarsi. Per loro le distanze fisiche non hanno molto significato.

E la deresponsabilizzazione dei governi che lasciavano la risoluzione dell’inquinamento ambientale ai singoli cittadini e alla raccolta differenziata o alle spie rosse della tv senza pensare al modello di produzione non è uguale alla colpevolizzazione di chi fa corsette o rientri (da evitare sia chiaro) senza pensare a chi ha distrutto la sanità, a requisire le cliniche private e altre cose simili?

La logica è la stessa, solo che ora è divenuto senso comune (e quindi il buon senso si è nascosto come dice Manzoni) o come piace di più pensiero dominante. Questa storia forse ha accelerato solo dinamiche che già serpeggiavano (una su tutte la distruzione dell’UE con soddisfazione di Cina e Cuba … ma forse è solo la solidarietà socialista).

Rileggo. Troppo pessimismo? Ancorarsi alla normalità è comunque un modo per rispondere alla crisi (insieme all’ironia, alla paura e altro), è un’opera di resistenza. Per chi ha resistito ai 5 minuti di lettura. E dopotutto anche questa è solo una delle tante riflessioni quindi niente paura.