Cosenza, da Villaggio Globale a paranza locale

Se da un lato è vero che la provincia di Cosenza è la più grande e popolata della Calabria, dall’altro è anche vero che Cosenza (capoluogo di provincia) di fatto, da 40 anni a questa parte, subisce un lento ma inesorabile spopolamento. Da oltre 100mila abitanti (1980) Cosenza, all’oggi, registra una popolazione pari a 63mila residenti, anche se in realtà da questa cifra vanno sottratti i tanti cosentini domiciliati, per motivi di studio e lavoro, fuori regione e all’estero, che gli analisti stimano in oltre 15mila. Una cifra che riduce la fu Atene della Calabria, ad un vero e proprio paesotto.

Cosenza nu bbuanu paisi, dove la dimensione sociale scorre lenta seguendo i ritmi e i riti propri delle comunità del Sud. Quel profondo Sud che non si è mai scostato, almeno nel recondito immaginario identitario collettivo, dalla “dimensione arcaica” descritta da Carlo Levi nel suo romanzo (autobiografico) capolavoro “Cristo si è fermato a Eboli”.  Un Sud arretrato e poco incline, per oppressione e per rassegnazione, a partecipare all’emancipazione sociale e culturale delle masse che coinvolse gli ultimi e gli oppressi di tutto il mondo a partire dagli inizi di quello che viene definito il secolo delle accelerazioni: il Novecento. Senza andare troppo indietro nella storia.

Tutto questo ancor di più in Calabria dove i retaggi culturali – spesso trasformati in veri e propri codici comportamentali – legati ad una idea collettiva che non ammette alternativa ad una società divisa in classi, si trascinano ai giorni nostri. Ogni comunità che si rispetti deve avere un capo, padrone assoluto di ogni cosa, e dei sudditi sottomessi al suo unico e solo volere. Tribalmente parlando. Un assioma che però neanche la modernità, ostentata e pontificata, è riuscita a cancellare dai profondi meandri della nostra mente. Non è fingendoci moderni, magari pensando di esserlo solo perché capaci di usare oggetti all’avanguardia tecnologica, che superiamo i nostri limiti mentali. Dai quali, anche volendo, non riusciamo a prescindere, è la società che te li impone. E noi li accettiamo supinamente. Fuori dalle convenzioni sociali codificate dal sistema dominante (piccolo o grande che sia), non sei nessuno.

C’è stato un tempo però, a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando una ribelle componente di giovani, memori del passato, e dopo varie esperienze politiche e culturali, decise di “rompere gli schemi”. Erano gli anni della guagna facile, dell’espansione territoriale e della crescita demografica. Il bisogno di abitazioni di quegli anni farà le fortune di non pochi politici corrotti, ‘ndranghetisti e palazzinari. La città si compone di nuovi e popolosi quartieri popolari. La malavita locale ha da poco iniziato la metamorfosi: da gangster di strada a picciotti d’onore. In città spopolano due miti: malavita e palluni. A malandrineria sembra essere l’unica via di uscita da una quotidiana condizione di bisogno mal vissuta, complice i falsi miti, nell’epoca che passerà alla storia come il periodo dello “sprido”.  Lo status symbol l’unica e sola meta da raggiungere.

Per tanti sono i “favolosi anni 80”, le piazze cittadine si riempiono e alcuni tabù cadono. Con un ritardo di oltre vent’anni appaiono a Cosenza capelloni, punk, anarchici, metallari, autonomi, ultrà, e collettivi vari. Le tendenze politiche e culturali che attraversano il mondo trovano rappresentazione, non solo estetica, anche per le vie della città. La parola chiave diventa: controcultura. Il rimbombo degli anni Settanta riecheggia nei discorsi dei pochi che quella straordinaria esperienza hanno vissuto e, non domi, sperano in una nuova stagione di lotte. Discorsi spesso sussurrati in improbabili luoghi di periferia, o al chiuso di qualche magazzino. Ma che presto diventeranno l’elemento fondante della rinascita politica e culturale della città. Parole e suoni che daranno il via agli impegnati anni 90. L’inizio di un “nuovo decennio” (1991-2001) che permetterà a quella generazione di abbattere il muro del “pensiero unico”. Dieci anni di lotte che resero Cosenza tra le città più attenzionate d’Italia da parte della polizia politica.

L’entrata in scena della controcultura produsse un effetto fino allora impensabile: rompere lo schema tradizionale che regolava le relazioni tra le persone. Non più la “santa e inviolabile comitiva” come unico ambito di socialità, ma una idea di socialità diffusa e promiscua fuori dalla logica del consumo. Già, perché prima di allora oltre a “Dio, padrino e famiglia”, l’ambito di socialità più diffuso era la “comitiva”. Retaggio ancestrale del “branco”. L’uomo è un animale sociale, e si sa. La comitiva: un gruppo di amici che si frequentano assiduamente. Ma etimologicamente parlando anche: insieme di persone che accompagnano un personaggio di riguardo. Ovvero: un gruppo sociale spesso chiuso agli altri e con proprie regole, impermeabile ai cambiamenti culturali e di costume, guidato da un leader custode e garante della tradizione popolare. Una definizione che calza a pennello con il modo di stare insieme dei cosentini di allora. Comitiva, quindi, sinonimo di “paranza”. Non necessariamente attiva sotto il profilo criminale, ma che usa la stessa logica malandrinesca, nel regolare i rapporti tra i componenti del gruppo, tipica dei clan di onore. Riuscire a costruire uno spazio di socialità meticcia fuori dagli alti steccati mentali e politici di quell’epoca, è la vittoria più importante che quella generazione possa vantare. Sconfiggere la logica del branco comitiva, è stata la battaglia culturale e politica più significativa, sotto il profilo dell’emancipazione sociale della città, degli ultimi 30 anni.

Tutti però sappiamo com’è finita: repressione, errori, livore, e “voglia di normalità”, i principali attori del declino della socialità diffusa e meticcia… quella che sembrava una conquista irreversibile, si è dimostrata, contro ogni previsione, un gigante dai piedi di argilla. La consapevolezza sociale che oltre alla logica della paranza c’è di più, che tutti pensavano ben radicata e immune da regressione, si è lentamente sgretolata sotto i colpi incessanti del potere che per tanti anni ha mal sopportato la troppa libertà. Colpi che hanno frantumato ogni forma di ribellione, inducendo anche i più duri alla resa. Costretti, da un potere che si è dimostrato forte e combattivo, ad accettare l’umiliazione dei vinti: il ritorno alla normalità. La normalità tanto odiata e combattuta. Niente più politica, niente più trasgressioni, niente più cose strane. Questo il prezzo da pagare per ottenere il perdono dei vincitori: riconformarsi ai codici sociali imposti dal sistema dominante l’unico modo per condurre una vita apparentemente serena e produttiva. Un ritorno al peggior passato imposto dalla necessità di sopravvivere socialmente al ripristino dello status quo. Abiurare, per amor di quieto vivere, le conquiste politiche, culturali e sociali di quegli anni, la peggiore sconfitta di quella generazione.

Apparranzarsi in comitiva, diventa così, l’unica soluzione alla solitudine sociale e politica. La comitiva ritorna ad essere il centro dell’universo nella Cosenza di oggi: intellettuale, di quartiere, di curva, di piazza, di infanzia, di categoria, di fratelli, di paranza, non importa. Quello che conta, per non morire culturalmente, è sublimare le proprie idee all’interno di un ristretto gruppo, una maniera, per continuare ad apparire per quello che non si è più. Un modo per mitigare l’insopportabile regressione sociale, culturale e politica imposta dai vincitori, la sconfitta brucia e rimuoverla, almeno all’interno del proprio microcosmo, una via d’uscita dalla vergogna. La paranza come un rifugio dell’anima, una sorta di prigione dorata, con confini precisi oltre i quali non si può più andare. Meglio così che in una prigione vera. Tutto ciò sta bene al potere che può così meglio controllare le poche teste calde rimaste in circolazione. Come a dire: tra abbandonare il villaggio globale e ritornare alla paranza locale, c’è di mezzo la voglia di una vita normale.