Cosenza e Rende, il blitz di Gratteri. Scacco matto al Gattopardo

L’ultimo blitz di Gratteri, condotto dalla Dda di Catanzaro su tutto il territorio della cosiddetta area urbana, ha ridisegnato, sotto il profilo criminale, la nuova “geografia” dei clan operanti nella “città unica” di Cosenza/Rende. La tanto discussa “area metropolitana” (Cosenza, Rende, Montalto, Castrolibero, e per Franz pure la Presila, il Savuto, e le Serre cosentine, 170mila abitanti) di cui la politica vaneggia a fasi alterne senza mai giungere a conclusioni, di fatto, per la ‘ndrangheta esiste già da tempo. E lo dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, il blitz di Gratteri. Che non è ovviamente il solo velo squarciato da questa inchiesta, a cui bisogna anche attribuire il merito di aver definitivamente messo nero su bianco la consapevole responsabilità di certi magistrati, in servizio presso il Tribunale di Cosenza, nel proliferare del crimine in città e provincia. Ma andiamo per gradi.

Gli investigatori della Dda parlano di una confederazione di clan, tenuti insieme dall’opportunismo criminale e economico, composta da 7 gruppi. Nel certosino lavoro investigativo svolto dalle forze di polizia che hanno partecipato attivamente alle indagini, è descritto l’organigramma di ogni singola paranza, le sue principali mansioni criminali e il territorio che controllano. Un elenco dettagliato di vecchi e nuovi picciotti, ma anche un importante documento che aggiorna la complessa e mutevole articolazione dei clan, dislocati militarmente su tutto il territorio della mitologica città metropolitana di Cosenza. Per i clan confederati, a proposito di “città unica”, tra Castrolibero e Montalto, o tra Rende e Cosenza, non esiste più un confine da marcare, l’affare sporco è sempre il benvenuto quando a “portarlo” sono bravi picciotti di vecchio e nuovo stampo, fedeli alla linea. “Guagliuni toghi” che si impegnano a versare, senza fare troppe storie, ogni provento illecito nella magica bacinella ripartita, tra le paranze, secondo criteri di prestigio criminale e altre stronzate simili.

A garanzia del patto confederativo tra i clan ci sono Francesco Patitucci, e il suo vice Roberto Porcaro, entrambi appartenenti all’albero genealogico criminale che affonda le malefiche radici nella mala cosentina. Sono loro infatti che stabiliscono chi e cosa può fare. Il loro spessore delinquenziale è riconosciuto da (quasi) tutti: con le sue influenti ed esclusive amicizie massoniche, Patitucci, ha dimostrato, a tutti i picciotti, di saper addomesticare anche i processi. Un boss con queste “qualità” fa comodo a tutti, dei suoi favori si può sempre aver bisogno. Anche se va detto che per raggiungere l’autorevolezza criminale di cui oggi gode Patitucci, ha dovuto faticare e non poco, costretto, in alcuni casi, a subire le “Forche Caudine”. Più di qualcuno, infatti, ebbe a lamentarsi, all’inizio della sua scalata al trono, che i conti non tornavano. Accuse rivolte chiaramente alla strana gestione della cassa comune da parte di Patitucci che, a detta di molti, “minava a manuzza aru mmucciuni” dentro la bacinella. A questo si aggiunse la “delusione manifesta” di chi non gradì tanto l’esclusione dalla tavola degli appalti dove sedeva Patitucci (appalto piazza Fera), e per questo “cercava vendetta”. Se non fosse stato per le sue pesanti conoscenze avrebbe potuto, in quel determinato periodo, anche non passarla liscia.

E allora diciamola tutta e fino in fondo: Patitucci si ritrova a fare il capo un po’ suo malgrado. La paranza che dominava allora la città, conosciuta alla cronaca come clan Rango/Zingari/Bruni (alias Bella Bella), venuta fuori dopo il vuoto lasciato dalle storiche paranze sterminate dal pentitismo e dalla dissociazione (processo “Garden”), aveva praticamente messo all’angolo il Patitucci considerato assieme a qualcun altro, uno dei pochi sopravvissuti della vecchia guardia: rispetto sì, ma cumBidenza no. A tirarlo fuori dalla delicata situazione, arrivano, per sua fortuna, gli arresti dei boss Lamanna, Rango, Bruzzese, Foggetti e banda. E come sempre accade dopo una retata, si crea il solito vuoto di potere che agli occhi di infatuati picciotti del mito del malavitoso tutto d’un pezzo, solo Patitucci poteva colmare. Un amore avvalorato dall’ennesimo e puntale pentimento dei malandrini finiti in cella (Lamanna, Foggetti, Bruzzese, e scagnozzi vari): nessuno dei picciotti di mestiere poteva più fare riferimento a boss pentiti, Patitucci diventa così l’unico candidato alla poltrona di boss. In tutto questo non tarda ad arrivare l’investitura ufficiale dai vecchi compari all’ergastolo che vedono in lui l’unico appiglio per non perdere potere e denaro, dei “nuovi” non si fidano. Ed è proprio in questo preciso momento che Patitucci, da furbacchione qual è, capisce che può uscire dall’angolo da vincitore senza sparare un solo colpo. Tutti hanno bisogno di lui, anche se non ha brillato in malandrineria. È lui l’indispensabile, e sfrutta la situazione, gonfiando il petto, a suo vantaggio.

Se da un lato è la sorte a dargli una mano nella sua scalata al potere, dall’altro lato va riconosciuta al Patitucci la capacità di aver capito come approfittare della favorevole congiuntura degli eventi, mettendo in scena con una certa eleganza tutto il suo fascino criminale accompagnato dalla sapienza di saper riconoscere il momento preciso per calare l’asso (scusate la nota romantica): la promessa agli amici più stretti di mettere a loro disposizione le sue pesanti amicizie. Una promessa che non si può rifiutare. Che tradotta significa: coperture politiche di un certo livello, e notizie di prima mano dalle procure, con particolare riferimento a quella di Cosenza, dove qualche buono amico si trova sempre. Una promessa che non è la solita chiacchiera, e Patitucci lo ha dimostrato.

E poi è la storia criminale della città che lo dice: così come è verità storica il vecchio e saldo legame tra mala e politica, anche la rispettosa e ossequiosa relazione, fatta di graditi scambi di favori, tra toghe e malavita, è una verità che nessuno può negare, al netto di ogni generalizzazione.  Una sorta di tradizione massonica che, come si sa, è storicamente presente nelle stanze delle giustizia cosentina, e che questo blitz, seppur indirettamente, chiama in causa. E la chiamata in correità non può che riferirsi all’inadeguatezza della procura cittadina in materia di lotta al crimine. Per dirla con educazione e garbo che tanto piace ai puristi della forma. Eppure il quadro descritto dalla Dda di Catanzaro è devastante. Centinaia di famiglie, aziende e attività di ogni ordine e grado, vessate dai clan. Possibile che i segugi della procura cittadina non si sono mai accorti di niente? Se non fosse per il rispetto che si deve alle vittime verrebbe di pubblicare l’elenco dei “perseguitati”, non certo per metterli alla berlina, ma per restituire a tutti, anche a chi fa finta di non sapere, la devastante realtà della situazione: la quasi totalità dell’economia cittadina è amministrata dai clan! Scusate se è poco!

Ora, qualcuno potrebbe dire: anche quando non c’entra niente trovate sempre il modo di mettere in mezzo il povero procuratore capo Gattopardo, facendo finta di non sapere che le inchieste sulla ‘ndrangheta non sono di competenza della procura di Cosenza. Ed è vero, ma non è questo il punto. Quello che tutti dovrebbero guardare con attenzione, magari smettendola di ciarlare di finto e peloso garantismo verso conclamati mafiosi, è la criminale capillarità del controllo dell’economia da parte dei clan, una operazione che coinvolge, chi per scelta, chi suo malgrado, un sacco di gente. E la complicità della procura nel far finta dell’inesistenza del malaffare a Cosenza non sta nel non aver prodotto retate e inchieste contro i malandrini, ma si manifesta nella mancanza totale di denunce da parte dei vessati, dei taglieggiati, degli strozzati, dei forzati, che sono centinaia, alla autorità giudiziaria cittadina che è la procura. Un dato che dovrebbe far rizzare i capelli alla politica e alla società tutta. Com’è possibile che nessuno si è mai rivolto alla procura cittadina per denunciare anche una sola delle centinaia di vessazioni che si consumano giornalmente, e alla luce del sole, per le strade della città? Come mai i cittadini vessati, che di sicuro non cavillano sulle competenze giudiziarie, non hanno mai avvicinato un pm della procura cittadina? Com’è possibile che nessuno si preoccupi di questo?

Ecco, le risposte le conoscete tutti: nessuno si fida della procura cittadina. Tutti i cosentini sanno che le sentenze e le inchieste si vendono tanto al chilo a Cosenza. Nessun taglieggiato denuncerebbe mai i suoi estorsori in procura a Cosenza perché sa bene il rischio che corre: dopo due minuti dalla denuncia c’è sempre qualcuno che avvisa il malandrino. Meglio pagare. Questa è la responsabilità della procura: aver creato, per mero interesse personale, una totale sfiducia nella giustizia. E scusate se è poco anche questo. Il verdetto per il Gattopardo è stato emesso: moralmente e penalmente colpevole della grave situazione cittadina, a dispetto delle sentenze farlocche del Csm sul suo operato. A voler chiudere con una delle più belle e profonde metafore sul valore della lealtà legato alla vittoria, per il Gattopardo questa volta è definitivamente scacco matto! E va bene anche così.