Cosenza, la deriva della Petrocca: ieri “salvava” gli ultimi, oggi “sorveglia” gli attivisti di sinistra

L’intervista che pubblichiamo risale allo scorso mese di giugno ed è stata pubblicata su Il Messaggero, da sempre il giornale dei romani. L’ha scritta una giornalista, Camilla Mazzetti, che evidentemente conosce bene Giovanna Petrocca, ieri vice capo della Squadra Mobile di Roma e da tre anni e mezzo questore di Cosenza. Il ritratto che ne esce fuori è quello di una donna che sa il fatto suo e che sta sempre dalla parte degli ultimi. Tutto il contrario di quanto sta facendo in questi anni e in modo particolare in questi ultimi mesi, che l’hanno vista protagonista per aver multato tra attivisti che facevano una “passeggiata” nel centro storico devastato di Cosenza e per aver richiesto la sorveglianza speciale per altri due attivisti che hanno denunciato corruzione e malaffare nella città dei Bruzi. Corruzione e malaffare per i quali, da quando è questore di Cosenza, la dottoressa Petrocca non ha mai fatto una beneamata… ralla.  Leggere questa intervista è la vera e propria cartina di tornasole della deriva professionale di questa signora e c’è solo da augurarsi che, rileggendola, rinsavisca in questi pochi mesi che le mancano prima della… pensione. 

di Camilla Mazzetti

Fonte: Il Messaggero

In una scatola nella quale conserva i suoi ricordi c’è anche quel ramo di orchidea che un giovane le regalò il giorno di San Valentino di tanti anni fa. No, non era un ammiratore anche se, a suo modo, quell’uomo aveva una ragione per esserle grato.

Fu grazie a Giovanna Petrocca, classe 1959, oggi questore di Cosenza e prima donna poliziotto a ricoprire il ruolo di vice capo della Squadra Mobile di Roma, che quel giovane dopo essersi cosparso il corpo di benzina con l’intento di suicidarsi – perché con un figlio malato e senza lavoro – fu salvato. La dottoressa Petrocca ci parlò per ore e ore tanti anni fa dentro ai locali dell’Asl di Primavalle, alla periferia nord della Capitale, fino a prendere il telefono, chiamare l’ufficio di collocamento, caricarlo in macchina pur di fronte allo scetticismo di alcuni colleghi – dottorè ma se questo si dà fuoco? – e portarlo fisicamente a cercare un impiego. Quel ragazzo riuscì ad essere assunto in una ditta di pulizie e con il suo primo stipendio si ricordò di lei, di quella donna che gli salvò la vita e a cui regalò una pianta di orchidee che non è mai appassita.

Nel corso della sua carriera di vite, il questore di Cosenza, ne ha salvate anche tante altre. Quelle di alcune madri di figlie morte ammazzate nei modi peggiori. In quei modi per i quali “è impossibile pensare al perdono”, ma che regalano – anche se potrebbe sembrare paradossale – la certezza “di riuscire ad avere ancora fiducia negli uomini”. A quelle madri Giovanna Petrocca – con un passato nelle Volanti e in svariati commissariati romani compreso quello di Albano nel quale ebbe modo di seguire anche tutta la sicurezza di Papa Giovanni Paolo II durante i suoi soggiorni a Castel Gandolfo – consegnò i volti e i nomi degli aguzzini che avevano violentato e ucciso le loro figlie. Per alcuni di loro ci volle tempo, se non addirittura anni. Ma su alcuni efferati delitti riuscì a scrivere la parola “fine”. E ad alcune vittime, come Vera Heinzl, una ragazza tedesca morta a Roma nel 2004 dopo esser stata drogata e lasciata cadere nel Tevere, ha ridato una dignità. Il corpo di Vera, chiuso in una bara, uscì dall’obitorio con un cuscino di rose bianche: l’omaggio della Squadra Mobile “perché è importante portare umanità anche laddove questa sembra perduta”.

William Jennings Bryan disse che il “destino non è questione di fortuna, è questione di scelte”. La sua, di scelta, Giovanna Petrocca la fece quando, ancora ragazzina, si trasferì con la famiglia a Roma da Crotone.

Dottoressa Petrocca, lei è stata nominata questore di Cosenza nel 2018 ma alle spalle ha un lungo passato che l’ha vista impegnata in tanti commissariati della Capitale fino a diventare la prima donna vice-capo della Mobile. La sua vita non è stata lasciata al caso giusto?

«Mi sono sempre appassionata a questo lavoro fin da quanto ero una ragazzina, sono entrata in polizia dopo la laurea in Giurisprudenza tramite concorso. Era il 26 settembre 1988 e quest’anno saranno trentatré anni. Scelsi la facoltà per questo e non per fare l’avvocato o altro. Desideravo la polizia e l’ho avuta».

Cosa la affascinava all’epoca e cosa è rimasto di quell’idea romantica di ragazzina?

«Tutto. Lavoro con lo stesso entusiasmo dell’inizio, mi emoziono ancora a ogni festa della polizia. In qualità di dirigente superiore, come questore, non indosso più la divisa ma è nel mio armadio, ordinata. Ogni tanto lo apro, me la guardo e capita anche che la indossi». (sorride).

In 33 anni la sua motivazione è sempre rimasta la stessa ma com’è cambiata invece la polizia per una donna?

«All’inizio della mia carriera fui assegnata alle Volanti, ero già vicecommissario e all’epoca avevo due stellette sulla divisa, motivo per cui alcuni colleghi anziani mi guardavano con circospezione, quasi sospetto. Un giorno entrai nella segreteria: era un ambiente spartano, vuoto. Decisi di ridipingere le pareti e mettere delle tende alla finestra. Tende bianche, semplici. Un vecchio ispettore entrò, vide cosa avevo fatto e con un’aria di compianto disse: “questa una volta era una caserma”, non gli diedi peso. Dopo le tende, a poco a poco arrivarono anche le piante. Ecco, le dico questo perché la polizia quando iniziai io era prettamente maschile e non solo nell’esteriorità. Anche nel linguaggio, nei comportamenti. Poi si è ingentilita, ci è voluto tempo e impegno ma oggi uomini e donne sono alla pari e l’ultima barriera è caduta con la nomina a vice capo vicario della polizia di Maria Luisa Pellizzari».

Alla Squadra Mobile è passata dalla risoluzione di tanti omicidi e rapine alla riapertura delle indagini per la scomparsa di Emanuela Orlandi. Ci racconta quegli anni?

«Anni bellissimi. Iniziai alla IV Sezione che all’epoca era quella dei reati contro il patrimonio, era un assegnazione per competenza, ma c’era quello che noi chiamavamo il “vecchio turno”. Iniziavi alle 14 e finivi 24 ore dopo occupandoti di tutto quello che poteva accadere, omicidi compresi. E ne ho visti tanti».

E fra i tanti quale quello – o quelli – che si porterà sempre dentro?

«L’omicidio di Maria Scarfò, una signora del Quadraro che fu trovata massacrata da 52 coltellate sull’A1 all’altezza di Caianello. Non era una prostituta, non era una delinquente, non apparteneva a famiglie mafiose. Era solo una madre che la sera del 28 dicembre 2000 uscì dal suo bar per tornare a casa ma non ci arrivò mai. Io ero alla IV Sezione nel “vecchio turno” quando arrivò la segnalazione del ritrovamento del corpo e il caso me lo sono portato dappertutto, non ho mai smesso di lavorarci perché l’avevo promesso alla madre di Maria e così è stato».

Dopo sette anni, chi l’aveva uccisa?

«La poveretta era rimasta vittima di un maniaco che all’epoca era agli arresti domiciliari dalla sorella. Risolvemmo il caso perché quest’uomo molti anni dopo sequestrò tre ragazze al Circo Massimo e le portò più o meno nello stesso posto in cui uccise Maria, provando a violentarle. Ma loro erano in tre e riuscirono a scappare. La denuncia che sporsero con il luogo in cui furono portate mi fece sobbalzare. Mi dissi: vai a vedere se non è questo l’uomo che ha ucciso la Scarfò.  Tra i reperti che acquisimmo dopo il sequestro delle ragazze c’erano anche diversi mozziconi di sigarette che confrontammo poi con i materiali repertati all’epoca dell’omicidio della Scarfò: era lo stesso uomo. Il caso fu risolto il 20 dicembre del 2007, sette anni più tardi».

Lei ha lavorato moltissimo anche sul caso di Emanuela Orlandi che resta uno dei grandi “misteri” irrisolti d’Italia.

«Rintracciai Sabrina Minardi e dal lavoro che facemmo emersero dei dettagli sufficienti alla Procura per riaprire il caso poi venne nuovamente archiviato».

Le è pesato?

«Avevo raccolti dei riscontri ma non sono stati valutati abbastanza forti. Ognuno ha le sue idee, io ho le mie e le tengo per me».

Quegli anni, prima di diventare Questore, quanto hanno influito sulla sua umanità?

«Ci sono delle cose che mi hanno molto segnato, tipo il terremoto dell’Aquila che trattai quando ero dirigente del Gabinetto interregionale di polizia scientifica Lazio, Umbria e Abruzzo. Abbiamo identificato 399 cadaveri e non dimenticherò mai quelle ore trascorse dentro al capannone della Guardia di Finanza, mentre arrivavano le vittime: il collega poliziotto oppure il bambino di tre mesi morto con il pannolino addosso. Quando ero alle Volanti mi occupai di un neonato abbandonato dalla madre in un cassonetto sulla Cassia. Seguì quel piccolo in ospedale per diversi mesi fino a quando non fu adottato ed è sempre rimasto nel cuore».

E di fronte agli omicidi più efferati quanto margine resta per continuare a credere nell’essere umano?

«Sono una grande credente ma sono anche un essere umano. Alcune cose non riesco a perdonarle. L’omicida di Maria Scarfò non lo perdonerò mai, non sta chiaramente a me giudicarlo, lo hanno fatto i magistrati, lo farò il Padre Eterno. Non potrò mai perdonare l’omicida di una ragazza albanese costretta a prostituirsi e poi ammazzata con un colpo in testa e bruciata ai Pratoni del Vivaro. Detto questo, ho fiducia nelle persone, quella non l’ho mai persa».

Da ultimo il ritorno in Calabria come questore di Cosenza.

«La provincia di Cosenza è forse uno dei territori più delicati che ci siano perché è una provincia immensa con 156 Comuni che coprono il 45% della superficie calabrese, l’altro 55% è diviso in quattro provincie ma quando mi è stato proposto questo incarico, dall’allora capo della polizia Franco Gabrielli a cui sarò sempre grata, ho provato gioia perché anche se alla fine sono cresciuta a Roma, la Calabria resta sempre la mia terra e mi sento orgogliosa ogni volta che viene fuori qualcosa di buono che serve a difendere la gente di qui. La Calabria è una delle terre più belle al mondo con tutti i suoi problemi e le case costruite a metà. E’ la Sila, è Tropea, è Capo Colonna, Riace, Scilla, Diamante. E poi la gente vera di Calabria è ospitalità e generosità ma tanti secoli di povertà, malaffare e mancanza di lavoro hanno portato alla ribalta la Calabria della ‘ndrangheta, della corruzione, della malasanità. In questa malasanità la Calabria ha dato all’Italia tantissimi primari eccellenti ma anche qui ci sono medici altamente specializzati e capaci che sono da ammirare di più perché potevano andare via ma hanno deciso di restare».

Se qualcuno le dicesse: per il tuo lavoro hai sacrificato la tua vita personale cosa risponderebbe?

«Che la vita è fatta di scelte, non farle è il vero problema. Al mio lavoro ho dedicato la mia vita, non ho figli né sono sposata. Questa è stata la mia scelta e non ho rimpianti».