Cosenza, la fine del piccolo potere di un piccolo borghese

di Pasquale Rossi

L’era “estetistica” dell’architetto Occhiuto volge, finalmente, al tramonto nella stessa grigia maniera in cui si era affermata, senza il clamore di un arresto o di un pesante avviso di garanzia, ma scolorendosi in uno scambio quotidiano di accuse e di repliche sul vero oggetto del contendere: i soldi. I soldi pubblici che, secondo la Corte dei Conti, sono stati male, ed in troppo grande quantità, usati da questo personaggio incolore, grigio e, soprattutto, privo di qualità se si ritiene, come chi scrive, che la sfrenata ambizione non sia un pregio. Quegli stessi soldi pubblici che hanno rappresentato il collante per l’ultimo accordo della paranza: la Regione a Robertino, il Comune al Pd di Nicola Adamo.

Una inestinguibile sete di potere aveva portato Mario Occhiuto a conquistarne una piccola porzione mediante un iniziale e ingannevole low profile, parlando di architettura e di bellezza, citando Dickens in articoli scritti da chissà chi, ma tessendo, dietro le quinte, una sempre più fitta trama di intrallazzi politico-economici con imprenditori più o meno in odor di ‘ndrangheta, lobbies, massonerie, poteri robusti (sarebbe eccessivo definirli forti), pezzi di magistratura e di forze dell’ordine, monconi di partiti che fingevano di essere all’opposizione e che, invece, facevano affari con lui. Del resto aveva vinto, entrambe le elezioni, grazie ai voti di una parte consistente ed individuabile del Pd. Occhiuto ha, dunque, instaurato un potere mediocre, modesto, grigio, ma diffuso, un piccolo potere metastatico che ha, subdolamente, contagiato quasi tutte le cellule della città, anche quelle più lontane da un punto di vista politico e culturale.

Questo modesto potere, detenuto da un piccolo borghese come l’architetto. ha sfigurato, purtroppo, Cosenza, in maniera irreversibile. Sono bastati otto anni di sindacatura per sfregiare per sempre una città fondata nella metà del IV secolo a.C dai Brettii, una città che aveva resistito, per più di due millenni, alla conquista e al ripopolamento dei romani, ai barbari di Alarico, alla malaria, alla peste, alle invasioni di popoli e sovrani provenienti da tutta Europa. Aveva retto di fronte agli insulti del tempo, alla fine del mondo antico, al conseguente abbandono ed allo spopolamento altomedioevale ed alla ricostruzione medioevale e, soprattutto, rinascimentale.

Aveva reagito alla devastazione dei terremoti ed alle crisi economiche e sociali risollevandosi e ricostruendo, faticosamente e pazientemente, il suo tessuto urbano e la sua vita associata sulle pendici del Pancrazio. Quando le condizioni economiche e sociali lo permisero, la città scese a valle, in pianura; dapprima in maniera ordinata e razionale e poi, dopo la seconda guerra mondiale, in modi disordinati, tumultuosi e, soprattutto, speculativi, ma, comunque, mai con intenti esclusivamente populistici e usando metodi così grossolani e così totalmente privi di gusto estetico.

Ricostruire l’elenco delle sue malefatte è ormai diventato l’hobby preferito dai cosentini: dalla distruzione del centro storico, tra demolizioni pratiche e devastazione “culturale” del Castello Svevo a quella del Viale Parco/Mancini, letteralmente sventrato, al doppio senso di piazza Fera alla chiusura di via Roma al degrado dei quartieri popolari. Ha paralizzato un’intera città, chiudendo strade e realizzando in luoghi inappropriati piste ciclabili e isole pedonali, l’ultima delle quali davanti al Caffé Renzelli di Piazza dei Bruzi, dove ha creato una strozzatura e ingolfato la circolazione delle auto. Per non parlare dell’onta del dissesto finanziario, che la città non aveva mai conosciuto. Un decennio devastante dal quale sarà davvero difficile uscire, anche perché chi prende il suo posto gli ha tenuto il sacco per tutti questi lunghi anni. Povera Cusenza nostra!