Cosenza, quando Mario Spagnuolo aveva l’esclusiva sulle “cantate” di Peppino Vitelli

Stiamo ricordando la figura di Raffaele Nigro, scomparso poco più di un anno fa, certamente il giornalista più importante ed influente della città di Cosenza nei 25 lunghi anni (1982-2007) nei quali ha diretto la redazione della Gazzetta del Sud. Nel 2007, appena uscito dai ranghi del quotidiano messinese, ha diretto La Provincia Cosentina e ha pubblicato gli atti dell’inchiesta di Otello Lupacchini sulla procura di Cosenza (titolo: Rapporto-choc sul Tribunale di Cosenza), accompagnandoli con un breve editoriale, che riportiamo di seguito. E che è tornato di grande attualità a poche ore dall’addio alla magistratura di uno tra coloro che ha retto per decenni – prima da sostituto giovane, poi da sostituto anziano e infine da procuratore capo – il famigerato porto delle nebbie di Cosenza. 

Scusate il ritardo

La Provincia Cosentina, giovedì 5 luglio 2007

di r. n.

La pagina più nera della magistratura cosentina. L’hanno scritta gli ispettori del ministero di Grazia e Giustizia che hanno raccolto in un voluminoso dossier i risultati della loro missione al palazzo di giustizia.

Attenzione alle date. Il dossier è del 2005 ma in questi due anni è rimasto invisibile. Tutti sapevano che c’era ma nessuno ne ha reclamato la pubblicazione. Una prudenza sospetta in una città in cui custodire un segreto è operazione impossibile. Rompiamo, con due anni di ritardo, la consegna del silenzio e pubblichiamo il dossier perché rappresenta un eccezionale documento sulla malagiustizia, che è la gemella di quella malapolitica che domina a Cosenza e in Calabria.

Il dossier mette in evidenza intrighi, rivalità, omissioni, complicità che hanno avuto come protagonisti magistrati importanti sia della Procura cosentina che della Dda, avvocati, faccendieri. Non spetta a noi formulare sentenze. Ci limitiamo a raccontare i fatti con le parole degli ispettori, senza commenti. Che sono, come i lettori capiranno, davvero superflui.

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI

L’operazione Garden della DDA di Catanzaro aveva sconvolto gli equilibri decennali della corruzione cosentina e aveva messo in gravissima difficoltà la procura della Repubblica diretta da una coppia che ha sempre tenuto la polvere sotto il tappeto: Alfredo Serafini (passato a miglior vita) e Mario Spagnuolo (degno successore di cotanto “maestro”), impegnatissimi ad evitare alla DDA di scoperchiare le loro connivenze e complicità in combutta con un gruppo di avvocati lestofanti e al servizio della malavita e della politica corrotta. 

QUARTA PUNTATA

Il procuratore della DDA di Catanzaro Mariano Lombardi non poteva far altro che avallare chi considerava scorretto il comportamento degli avvocati penalisti cosentini in perfetto accordo col procuratore e col sostituto anziano, una cricca potentissima di malaffare.

“… Appariva d’evidenza solare – scrive nella sua relazione – che l’accusa di alcuni avvocati era strutturata su una presunta azione di delegittimazione compiuta dai magistrati della DDA nei confronti di quelli di Cosenza. Che lo sostenessero gli avvocati era irrilevante e per quest’ufficio indifferente, atteso il livello di quanti avevano tentato di sfruttare. Ma il dato era anche falso in quanto quelle denunce nei confronti dei magistrati di Cosenza le avevano raccolte proprio magistrati della procura della stessa città. E il magistrato in questione era il sostituto procuratore della Repubblica Mario Spagnuolo che aveva interrogato il 28 marzo 1995 Nicola Notargiacomo.

Mariano Lombardi spara a zero su Spagnuolo e non gli risparmia nulla.

“… Se in un verbale di interrogatorio, 64 righe sono dedicate all’omicidio Chiappetta e ben 70 righe ai magistrati defunti, trasferiti, in servizio, le mie considerazioni nella nota diretta al procuratore nazionale peccano per difetto e non per eccesso. Intendevo dire che le accuse degli avvocati di aver fomentato faide contro i magistrati di Cosenza erano inesatte, in quanto in nessun verbale redatto dal magistrato che svolgeva funzioni nel processo Garden erano state verbalizzate simili accuse. A meno di non affermare che i magistrati e Morano (presidente della Corte d’assise di Cosenza, ndr) avessero avuto una parte nell’omicidio Chiappetta, la verbalizzazione di quelle accuse nel contesto di un interrogatorio finalizzato a individuare i responsabili dell’omicidio, non aveva alcun senso ed era del tutto estraneo ai fatti per i quali vi erano delle indagini.

E non si trattava di verbalizzare o meno “quello che poteva fare comodo” ma semplicemente di inserire in un verbale i presupposti per la ricusazione di due presidenti di sezione. E poiché il fatto, nel corso del processo Garden, era stato strumentalizzato dalla difesa proprio a questo precipuo fine ed attribuito all’azione di questo ufficio, avevo il sacrosanto dovere di esplicitare al mio superiore (procuratore nazionale antimafia) che le strumentalizzazioni difensive non potevano essere giustificate con l’attività della DDA che aveva tutto l’interesse di portare il processo a conclusione…”.

L’attività di Spagnuolo sul fronte della gestione dei pentiti si presta dunque a più di un punto interrogativo.Il 22 giugno 1999 Eugenio Facciolla, subentrato a Stefano Tocci, scrive al procuratore Lombardi informandolo che era arrivata la copia di una missiva del direttore del servizio centrale di protezione con la quale, evidentemente a richiesta dell’interessato, si portavano a conoscenza di Mario Spagnuolo notizie riservatissime sul conto di ben tre collaboratori di giustizia e sconosciute alla DDA. Si trattava dei fratelli Giuseppe, Ferdinando e Francesco Vitelli.

“Il documento – precisava Facciolla – era stato maldestramente prodotto dal pm addirittura nel corso del processo Grimoli-altri (omicidio Chiappetta) davanti alla Corte d’assise di Cosenza con le immaginabili conseguenze in punto di attendibilità, spontaneità e gestione complessiva dei collaboratori.

Per cui Facciolla si domandava “se sia consentito a magistrati di un ufficio di procura diverso da quello che ha in carico i collaboratori e che non tratta processualmente “affari di mafia” richiedere e, quel che è peggio, ottenere notizie riservate sul conto degli stessi per renderle pubbliche in dibattimento”.

LA SAGA DEI VITELLI

Peppino Vitelli

Il nome di Peppino Vitelli emerse prepotentemente nei primi anni Ottanta quando insieme ai fratelli Franco e Ferdinando scalò le alte gerarchie della malavita cosentina nel clan dove i personaggi dominanti erano Franco Perna e i fratelli Pranno. Tanti gli omicidi che gli vengono attribuiti, visto e considerato che era uno dei killer più spietati del clan, accoppiati ad una vita spericolata tra malavita, soldi, donne e luoghi di divertimento. Non a caso, a metà degli anni Ottanta, diventa patron della discoteca Akropolis, crocevia di patti di potere e accordi inconfessabili. Le connivenze della famiglia del procuratore dell’epoca, Oreste Nicastro, con la malavita erano imbarazzanti. Basti pensare che lo stesso Peppino Vitelli aveva sposato una nipote del procuratore. Ma a Cosenza all’epoca tutto passava in cavalleria.

La leggenda narra che durante l’operazione Luce, condotta da Eugenio Facciolla, gli uomini di Peppino Vitelli avevano libero accesso nel Tribunale di Cosenza nelle ore notturne. Compito dei suoi affiliati, che avevano ovviamente l’appoggio dei dipendenti, a loro volta comandati dal procuratore e dal sostituto anziano, era quello di impossessarsi di preziosi fascicoli di indagine e di buttarli nei forni del panificio dei fratelli Vitelli in quel di Gergeri.

Vitelli sguazzava anche negli uffici dei giudici, dove comunque prendeva solo visione dei documenti delle ordinanze venendo a sapere così con largo anticipo le intenzioni degli inquirenti.

Non fu difficile per Spagnuolo, che conosceva benissimo Nicastro, intrufolarsi nelle questioni relative al pentimento dei Vitelli. Il suo galoppino ovvero l’avvocato Manna aveva curato i dettagli e di conseguenza le notizie riservate dei Vitelli passavano in esclusiva al caro Spagnuolo. Un giochino che a Cosenza tutti conoscono. Salvo poi permettere allo stesso magistrato non solo di far carriera a Catanzaro ma addirittura di ritornare da procuratore nello stesso luogo dove si è consumato il tradimento agli ideali dello stato.

4 –  (continua)