Cosenza tra l’esercito dei pentiti e le inchieste (finora) insabbiate

“A Cosenza ci sono più pentiti che cristiani” si era lasciato sfuggire Vincenzo Curato, ‘ndranghetista pentito (deceduto) fuoriuscito dalle cosche della Sibaritide, in una delle sue tante dichiarazioni ai magistrati delle Dda di Catanzaro. E non diceva il falso. Cosenza una “locale di pentiti”, la “colonna infame” della ‘ndrangheta calabrese. Una definizione calzante per i “mammasantissima” delle altre provincie che basavano il loro giudizio sullo sproporzionato numeri di pentiti venuti fuori all’indomani del primo e unico blitz contro le ‘ndrine cosentine: “Operazione Garden”. Infatti bastò quel blitz nel lontano 1994 (processo Garden), messo in atto dopo oltre venticinque anni di scorribande e quasi 100 omicidi commessi in totale libertà, per dar vita a quello che oggi si può definire senza paura di esagerare, “l’esercito dei pentiti”. Da allora il fenomeno del pentitismo è sempre stato in forte ascesa tra le fila dei clan locali. Dopo ogni operazione di polizia, piccola o grande, il 40% degli arrestati si pente. Una percentuale che è confermata dal ripetersi sistematico di questo “fenomeno”. E questo ha reso complicato quantificarli. C’è chi dice che dal 1994 ad oggi i pentiti cosentini hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 140.

A guardare gli ultimi 15 anni di storia criminale cittadina, la percentuale del 40% di pentiti ad ogni operazione di polizia, è più che confermata. A pentirsi, quasi subito dopo l’arresto o dopo qualche mese di 41 bis, capi e gregari. Ne citiamo qualcuno (i più conosciuti): Daniele Lamanna, Adolfo Foggetti, Franco Bruzzese, Luciano Impieri, Celestino Abbruzzese, Anna Palmieri, tutti personaggi di spicco dei clan locali. A loro bisogna aggiungere le ultime new entry: Roberto Presta e Nicola Acri. Due personaggi di alto profilo criminale. Il tutto incorniciato da almeno una quarantina di “soldati” e gregari pentiti. Senza contare le insistenti voci di radio marciapiede di questi ultimi giorni che annunciano altri pesanti pentimenti. Va anche detto per dovere di cronaca che esistono tra i clan locali diversi “boss” che non si sono mai pentiti, e che stanno scontando la loro pena a 41 bis, come Franchino Perna, Ettore Lanzino, Domenico Cicero, Franco Presta.

Si può essere d’accordo o no sulla legge e l’utilizzo dei pentiti, ma su una cosa tutti possiamo concordare: i pentiti servono per stabilire la verità giudiziaria sulle attività criminali delle varie mafie. I pentiti raccontano e i magistrati verificano, e una volta riscontrata la veridicità del loro racconto, si passa all’azione. È così che funziona, almeno in tutto il resto del mondo, tranne che per i pentiti di Cosenza. E già, anche su questo aspetto Cosenza presenta la sua “anomalia”: a differenza di quello che succede con altri pentiti in altre città della Calabria, dalle cui dichiarazione scaturiscono operazioni di polizia, delle dichiarazioni dei pentiti cosentini sembra invece che non importi niente a nessuno. E questo lo dicono i fatti: dalle dichiarazioni, ad esempio, di Foggetti, Lamanna, Bruzzese (tre personaggi di primo piano del panorama criminale cittadino), l’unica verità giudiziaria che è venuta fuori è quella relativa all’infame agguato al povero Luca Bruni. A questo si può aggiungere qualche piccola retata di pusher di serie C. Eppure i tre hanno parlato dei loro rapporti con politici, magistrati, professionisti, e hanno fatto tanti nomi di vecchi e nuovi picciotti mai scalfiti da nessuna inchiesta.

A dire il vero qualche magistrato ci aveva provato a dare seguito giudiziario alle dichiarazioni dei pentiti nostrani, ma come vi abbiamo raccontato ieri, è stato magicamente trasferito ad altra sede con una bella promozione. Vorremmo capire il perché le dichiarazioni dei tanti pentiti cosentini che chiamano in causa politici e colletti bianchi, non sono mai state prese in considerazione. Forse è una questione di attendibilità dei dichiaranti, si potrebbe pensare. Ma così non è, perché tutti e tre sono stati giudicati attendibili dal tribunale che li ha condannati per l’omicidio Bruni. La verità che più appare ai nostri occhi è quella che quando i pentiti cosentini parlano di Rango (boss cosentino condannato all’ergastolo per l’omicidio Bruni) sono credibili, quando parlano dei politici no, nonostante l’evidente coinvolgimento degli stessi nei traffici mafiosi. Altrimenti come spiegare non solo il boicottaggio dell’inchiesta su “Sistema Cosenza”, ma soprattutto la immobilità della procura antimafia rispetto alle notizie di reato denunciate dai pentiti.

A questo punto la domanda sorge spontanea: perché Gratteri continua ad arruolare pentiti le cui dichiarazioni non avranno mai un seguito giudiziario?

In attesa di una risposta possiamo formulare una ipotesi. Qui le cose sono due: o sta per scatenarsi una tempesta giudiziaria su Cosenza di dimensioni bibliche, oppure concedere lo status di pentiti a tutti serve per meglio controllare le loro dichiarazioni, metterli l’uno contro l’altro, farli smentire a vicenda con uno scopo ben preciso (processo Garden docet): tutelare il “terzo livello” (politici, poliziotti, pm, giudici, professionisti) tirato in ballo dalle dichiarazioni dei pentiti, e coinvolto a piene mani nei loro loschi affari. Come a dire: più confusione c’è, meglio è per tutti. E in galera ci resta solo Rango. O no?