Cospito. La pena, l’inferno e la misericordia (di Massimo Cacciari)

(MASSIMO CACCIARI – lastampa.it) – C’è da augurarsi che, comunque si concluda, il caso Cospito – che questo giornale ha sollevato tra i primi all’attenzione di tutta l’opinione pubblica – serva ad aprire, come la sua gravità imporrebbe, una seria discussione sullo stato del nostro diritto penale. Dai dibattiti parlamentari non sembra proprio emergere una simile, lodevole intenzione. Lasciamo perdere il vernacoliere di qualche parlamentarino. È il riflesso condizionato che mostra una destra, che si fingeva modernizzata, europea e di governo, a preoccupare. L’irrefrenabile ritorno alle “piste anarchiche”; la voglia irresistibile di spiegare proteste e conflitti sociali come espressione comunque di disordinati istinti volti ad abbattere le nostre sicurezze; l’incapacità di distinguere e analizzare i diversi casi, di far di ogni erba un fascio: anarchico appunto.

Il caso di cui ci occupiamo è di solare evidenza. Si è applicata la norma del 41 bis assolutamente a sproposito. Come è possibile confondere i reati commessi da Cospito e la sua attuale pericolosità con quelli degli stragisti mafiosi (e peggio di quelli dei terroristi anni di piombo) e l’azione che questi erano in grado di compiere, dirigendo dal carcere le loro organizzazioni? Ma che cosa può dirigere dal carcere Cospito? Ha letto una riga della storia dell’anarchia la destra che ci governa? Potremmo dire che la causa fondamentale della sua stessa sostanziale scomparsa dalla politica mondiale nel corso del secolo passato è stata proprio l’assenza di ogni struttura organizzativa in qualche modo centralistica. E figurarsi oggi, due secoli quasi dopo Bakunin!

È la differenza fondamentale con socialismo e soprattutto comunismo, sempre in polemica radicale con l’anarchismo anche su questo. Soltanto un folle paranoico potrebbe oggi ritenere che l’anarchia possa costituire un pericolo per la sicurezza dello Stato. Lo costituivano certo le organizzazioni terroristiche degli anni di piombo, e ancora più forse i mafiosi stragisti trent’anni fa. Lo costituiva la P2, dei cui rappresentanti nessuno, tra gli arrestati e quelli giudicati colpevoli, ha subito un carcere men che soft. Ed ecco che i signori di questo Governo scimmiottano tra l’indecente e il patetico i toni che si usarono allora, quasi si trovassero a dover affrontare le tremende scelte che si imposero negli anni di piombo e ancora con i Falcone e i Borsellino, tra cui appunto quella riguardante il regime carcerario del 41 bis: fermezza dello Stato, nessuna trattativa, nessun cedimento. Cospito come BR; Cospito come Riina. Cervello all’ammasso.

Giudicare e punire è un tremendo mestiere. Guai a non esercitarlo sulla base di alcuni irrinunciabili principi. Il primo è che la pena sia sempre proporzionata alla gravità del reato, e che i margini di arbitrarietà siano ridottissimi e chiaramente circoscritti. Il secondo è che sempre alla pena più grave, il carcere, si ricorra come extrema ratio, non come “prima scelta”. La terza è che mai la pena assuma la faccia orrenda della tortura. Il che significa che la pena non può mai ledere la dignità della persona. Questo deve valere anche per le norme più dure; esse non solo andranno adottate spiegando nel modo più trasparente e razionale la loro necessità, ma in forme che consentano a chi le subisce di svolgere quelle funzioni che sono proprie dell’animale dotate di logos che siamo, tra cui parlare, leggere, scrivere, muoversi. Non si tratta di essere più o meno buoni, ma di seguire e obbedire la logica del nostro stesso ordinamento; esso proclama solennemente, infatti, che la pena debba essere finalizzata a rieducare e reinserire in quella società di cui avrebbe infranto l’ordine chi è stato giudicato colpevole. Dobbiamo arrenderci al fatto che questo principio rimanga uno spettrale dover-essere? Certo, è così, se infliggiamo pene come quella che sta colpendo Cospito. E allora, cancelliamolo definitivamente quel principio, denunciamone l’assoluta ipocrisia. E confessiamo finalmente che le nostre pene sono soltanto ipocrite eredi del dente per dente e occhio per occhio.

Non si torna indietro – dichiarano i nostri eroici difensori dell’Ordine erigendosi contro le barbare orde dell’anarchia. Neppure dall’applicazione di una norma? Non si parla qui di revocare la norma stessa, ma questa sua particolare applicazione. Eppure occorrerebbe, sempre se si volesse o potesse ancora ragionare, riflettere sulla natura stessa della pena. È forse concepibile una pena che non puzzi di inferno se essa si separa assolutamente dalla possibilità stessa del perdono? O, in termini forse più semplici per i forti e duri che nulla dimenticano e nulla perdonano: è possibile una pena coerente ai principi della nostra civiltà che non preveda assolutamente la possibilità della “misericordia”? non è prevista in ogni diritto penale la “grazia”? e questa eventualità non si regge appunto sull’idea che la pena non deve in alcun modo essere applicata sine misericordia?

Appello ai naviganti: evitiamo al nostro Paese, che attraversa la crisi più grave dall’epoca appunto del 41 bis e di Tangentopoli, evitiamogli il trauma di una morte per fame all’interno di un sistema carcerario che da anni è all’“attenzione” di tutta Europa per le sue condizioni di degrado e invano attende riforme, nuovi impianti, più personale. Ben altre occasioni si presenteranno presto ai nostri governanti per mostrare i muscoli e tirare dritto.