Gerace e i suoi “apparatori”

di Emilio Grimaldi

Gerace” di Francesco Maria Spanò non è un libro di storia su una delle città che hanno attraversato in filigrana tutta la storia d’Italia e dell’umanità: non presenta quella scientificità che richiede un testo del genere; non è solo un libro di fotografie: impossibile avere delle immagini che possano tappezzare anche solo i frammenti più importanti della vita rappresentativa degli ultimi due secoli.

È un atlante di cocci e monumenti, di profumi e opere d’arte: un mosaico di pietre preziose. Dove la bellezza non si dipana dalle linee e dalle forme, ma dal contenuto, dalla sostanza: dall’archè. Non estetico, né morale, ma un atomo di inebriante energia.

Il lavoro di Spanò e degli altri che hanno dato il loro contributo per la stesura delle storie e delle immagini, è un riconoscimento della terra d’origine. Un rivivere quanto già vissuto da ragazzi e un consegnare un significato nuovo, sia per via dell’età anagrafica che per l’età vissuta. Si tratta dell’accento della maturità: come quell’uomo romantico che dopo avere attraversato tutto il mondo rimane colpito dai ricordi, dai suoi stessi ricordi. E qui si ferma per ammirare, riconoscersi. È la memoria cristallizzata dell’uomo adulto, che non ha più l’ingenuità e la spensieratezza di una volta: non sente e non vive più come prima, non ha più la simultaneità dell’esperienza: perché la sua è filtrata da una vita di sacrifici e sofferenze, da una coltre di storie e immagini infinite. Che, tuttavia, non rimangono imprigionate dalle pastoie del tempo.

Come è possibile che un piccolo centro della Calabria abbia potuto partorire così tanti spiriti illustri, dagli eroi della giustizia alla poesia, dalla politica Oltreoceano alle Cattedre universitarie italiane, dall’arte al riconoscimento dello spirito greco finanche da re, scrittori e artisti provenienti da tutta Europa? Sarà stata la filoxenia?

Come, perché? Chi e cosa ha dato il potere alla città di architettare un cultura di tale portata?

Sarà stata la storia? La terra calpestata da Zeleuco, da Pitagora, da Bernardo Barlaam?

Sarà stato il profumo d’alloro, del biancospino, del basilico, dell’olio?

La brezza marina, il fresco zefiro d’oriente?

Non sappiamo e non possiamo sapere.

Eppure, mi piace farmi coccolare dall’immagine di Carmine Rodinò, l’apparatore.

Tra i tanti ricordati nel testo di Spanò, questo simpatico vecchietto è stato per tanti anni “Custode geloso delle bellezze di Gerace, e ne fu guida severa e amorosa”, come dice un’epigrafe.

Il lavoro dell’apparatore è una specie di “tappezziere del sacro. Quando si esponevano a favore dei fedeli le statue dei Santi patroni o per altre festività le chiese venivano addobbate con drappi colorati, immagini di angeli, carta dorata.”

Quando morì fu posto il seguente epitaffio che aveva scritto lui stesso: “In questa tomba tenebrosa e oscura vive un morto. Carmine Rodinò, l’apparatore.” Vive un morto… probabilmente ha declinato il necrologio del vescovo Domenico Diez de Aux, morto nel 1705: “Vive mentre muore… desiderando di morire per poter vivere.”

Credo che i geracesi, che si sono distinti nel mondo: scrittori, magistrati, capi dei servizi segreti, professori universitari, artisti, abbiano conservato gelosamente i ricordi e le emozioni della terra natia alla maniera di Rodinò. Che li abbiano addobbati a festa. E che questo sia stato oltremodo sufficiente per scoprire tutti i segreti del mondo.