Giustizia nel caos. Lupacchini al vetriolo: “Gratteri? Messaggi obliqui e suggestive menzogne”

dalla pagina FB di Otello Lupacchini

Nel solco degli insegnamenti di Adolf Hitler, per il quale «Le masse sono abbagliate più facilmente da una grande bugia che da una piccola», e di Joseph Goebbels, il quale, a mo’ di raccomandazione, sottolineava che «Se dici una menzogna enorme e continui a ripeterla, prima o poi il popolo ci crederà», Nicola Gratteri, riapparso, dopo un’assenza semestrale, a «Otto e Mezzo», si è lanciato in uno sguaiato monologo, denso di suggestive menzogne, messaggi obliqui e abusati luoghi comuni, intervistato, si fa per dire, dalla carismatica padrona di casa, l’inossidabile Lilli Gruber, e dal direttore de «La Stampa» Massimo Giannini, «ottima penna» del giornalismo italiano per antonomasia, restato comunque quasi sempre silente.

Il procuratore di Catanzaro, pronto a un’ormai stucchevole campagna d’estate per la promozione dell’ennesimo libricciuolo spacciato, in concorso con i soliti leccapiedi, per novella Divina Commedia, ha parlato, fra l’altro, della riforma della Giustizia e messo nel mirino il premier, apostrofandolo con encomiabile garbo: «Draghi? Non pervenuto per quanto riguarda la giustizia e la sicurezza, mi sembra solo un buon esperto di finanza. Sul resto non tocca palla o se lo fa, mi preoccupa ancora di più perché non capisce che facendo così sfascia tutto». Naturalmente, però, complici il trentesimo anniversario della strage di Capaci e altri sciagurati «accidenti», non ultima la guerra in Ucraina, molti ancora sono stati i piatti forti ammanniti dal locutore de omnibus, dall’assaggiarne almeno alcuni, tutti richiederebbe troppo spazio, sarebbe un vero peccato esimersi.

Sincero è il «dispiacere» del «magistrato antimafia più famoso d’Italia», per l’asserita «bocciatura» alla guida della Direzione nazionale antimafia, dove alla fine è andato invece Giovanni Melillo, procuratore capo di Napoli, che l’ha spuntata nella votazione finale del Consiglio superiore della magistratura. Per vero, dopo averci girato intorno tessendo le lodi del competitor, «bravo magistrato e ottimo organizzatore», ha finito tuttavia per ammettere: «Sì, ci sono rimasto male. Credo di essere il magistrato con maggiori competenze internazionali sulla lotta alla mafia». Non solo: ha sottolineato di essere stato penalizzato dalla mancata iscrizione a una corrente della magistratura, asserendo che «Chi è iscritto a una corrente è molto, molto avvantaggiato. Io questo già lo sapevo ma ho fatto la scelta di non iscrivermi. Io non conosco nemmeno il 50% dei membri del Csm, non li riconoscerei nemmeno per strada, perché non li frequento. Io ho fatto domanda alla procura antimafia perché pensavo di avere l’esperienza necessaria, facendo da sempre contrasto alla criminalità organizzata: non esiste nessun magistrato al mondo che abbia fatto più indagini di me sulle mafie». Magari mettendo le zampe, posando a «massimo esperto mondiale» in subiecta materia, su quelle altrui; ma questa è un’altra storia.

E, per rendere ancora più evidente la sua amarezza, ha aggiunto: «Per la ’ndrangheta ora sono un perdente». Si è ben lungi, ovviamente, da una dichiarazione di resa: non a caso Nicola Gratteri ha snocciolato l’elenco di chi con lui solidarizza: i vertici di polizia, carabinieri e guardia di finanza; la polizia giudiziaria che lo «adora»; soprattutto, «la gente, i calabresi», personcine lobotomizzate dagli schermi, gravemente segnate da ossessione paranoide per manette, arresti, verbali di polizia giudiziaria, veline dei Servizi, le quali, al pari di lui, hanno un rapporto idiosincratico con i fatti, dai quali, in genere, è meglio prescindere; finalmente, il team investigativo che lo affianca e poco importa se, in un successivo passaggio, abbia considerato questi «Magistrati fantastici» alla stregua di flebotomi e infermieri: lui e solo lui il «primario chirurgo», patirebbe come un’irrimediabile degradazione il dovere, disgraziatamente, tornare a svolgere funzioni di sostituto procuratore della Repubblica. Questo la dice lunga sull’alta considerazione in cui l’«Os aureum» di Gerace tiene la Costituzione, a norma della quale «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (art. 107, comma 3).

Di fronte a tale smaccata manifestazione di normofobia, i due comprimari non hanno avuto nulla da ridire; e neppure ha avuto qualcosa da ridire l’Associazione nazionale magistrati e il suo troppo spesso inutilmente facondo presidente Giuseppe Santalucia. Ma non c’è da meravigliarsi: nessuno ha mai avuto il coraggio e l’onestà intellettuale di rilevare e, dunque, chiedergliene conto, l’«evanescenza» delle «grosse» operazioni rivendicate a ogni pie’ sospinto dal Nostro, i cui esiti hanno quasi sempre tradito le «promesse» enunciate, con squilli di trombe e rulli di tamburi, nelle pletoriche conferenze stampa con cui è solito promuoverle. Ma si sa, gli esseri umani sono disposti a credere a qualunque cosa tranne che alla verità; non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non creda, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci; la maggior parte della gente non si preoccupa di scoprire la verità, ma trova molto più facile accettare la prima storia che sente.

Che dire, poi, del goffo tentativo con cui ha preteso di «smontare» la riforma Cartabia, al punto di affermare: «La cosa che mi preoccupa di più è la riforma dell’ordinamento giudiziario: ad esempio la separazione delle carriere. Bisognerebbe facilitare il passaggio tra procura e tribunale, perché così si ha la completezza del magistrato, io ad esempio so che cosa serve per arrivare a una prova grazie all’esperienza che ho fatto da giudice»? Un silenzio condiscendente ha accolto queste surreali affermazioni, eppure è proprio qui, purtroppo, che casca l’asino: gli esiti giurisdizionali, quasi sempre fallimentari, delle «grosse» inchieste gratteriane, con buona pace degli adulatori, sono lì a dimostrare, al di là d’ogni ragionevole dubbio, che dalla propria asserita quanto indimostrata esperienza giurisdizionale, il Nostro abbia tratto ben poco profitto, sotto i profili sia della formazione sia della valutazione delle prove.

Dove, tuttavia, Nicola Gratteri è riuscito a superarsi, è stato quando, raccogliendo l’assist degli interlocutori, «Quel “no” l’ha isolata come fu per Giovanni Falcone?», con l’aria di chi fa professione d’umiltà rifiutando paragoni, ha puntato ad abbassare il martire palermitano al proprio livello: «Falcone e Borsellino? Due monumenti, due persone che ho scelto a modello, ma sono di un’intelligenza irraggiungibile. Falcone capiva le cose vent’anni prima degli altri ed è per questo che è stato ostracizzato da tanti suoi colleghi gattopardi che poi lo piangevano sui palchi. Fu un eterno sconfitto, ma è un esempio irraggiungibile».

Non è dato capire in cosa Falcone e Borsellino siano stati assunti «a modello» da Nicola Gratteri, il cui modus operandi non è seriamente paragonabile al loro e il cui pensiero si pone agli antipodi di quello di Giovanni Falcone. Questi, infatti, già trent’anni or sono sosteneva: «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e delle stesse carriere dei magistrati del Pm non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il Pm, arbitro delle controversia il Giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del Pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti, rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura».