Giustizia nel caos. Toghe e concorsi truccati: la Calabria e il filo diretto con il potere (di Saverio Di Giorno)

di Saverio Di Giorno

E se l’ennesima vicenda che riguarda la magistratura avesse a che fare con la Calabria? Quasi non fosse un luogo geografico, ma un luogo della coscienza per cui chiunque venga dalla Calabria sia marchiato a fuoco. Nei giorni scorsi, sulla Stampa, in due articoli a firma di Domenico Quirico si ripercorre la storia di un concorso truccato in magistratura. Gli articoli hanno spinto il sempre tardivo Csm a vederci chiaro. Quirico ripercorre la storia trentennale del penalista Pierpaolo Berardi e si imbatte in un fascicolo sparito: il 1101. Come questa storia è addirittura arrivata in un’interrogazione parlamentare che abbiamo ritrovato?

Bisogna riavvolgere il nastro fino al 1992, annus horribilis per l’Italia. Berardi viene bocciato, ma chiede di vedere i suoi elaborati. “Qui inizia una guerriglia: dinieghi, rinvii, rifiuti, controricorsi, silenzi” e poi Quirico continua “la reticenza aveva motivo: risulta che la valutazione di ogni elaborato è durata in media tre minuti ciascuno; inclusi i tempi morti per la discussione che deve essere collegiale (…) Si andava di fretta, non c’era suspence: gli idonei, secondo il mos italicus, erano già noti”. Non solo, ma come scrive La Stampa gli elaborati erano pieni di errori sesquipedali, segni di riconoscimento e si arriva infine al fascicolo 1101. “Uno dei promossi con voto più alto”. Il suo fascicolo è scomparso.

L’articolo successivo fornisce ancora più indizi in merito: questo elaborato è quello che ha “diciassette nella prova di diritto civile, diciotto in quella di penale, sedici in diritto amministrativo”. L’ultimo che ha visto quel fascicolo è proprio uno dei segretari di quel concorso. Il promosso costretto a rendere conto parla di una richiesta per diventare collaboratore giudiziario per la FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio). Quirico tira fuori una serie di altri tratteggi: un appunto per il “signor capo di Gabinetto del ministero” e poi scrive che il promosso, ora magistrato, non era l’unico in famiglia e nel concorso: madre, zii, cugini. Praticamente un titolo nobiliare più che una professione. Fin qui la Stampa.

Articoli che hanno smosso il Csm e quindi non potrebbero non smuovere anche gli ambienti calabresi. A quanto pare, questa regione pare avere un filo diretto con gli ambienti più alti del potere e questi, come visto, non si muovono se non, magari, dopo una cena vista mare in Calabria. Vicende così, ormai lo sappiamo, vengono dimenticate ufficialmente, ma in realtà nessuno perde e dimentica nulla. Sono come ancore, pesi che tengono fermi tutti nel caso qualcuno decidesse di rompere il muro del silenzio. Quando la fede crolla, il peccato originale non dà più rimorsi, quindi quello che tiene i fedeli legati è la confessione. Nel caso poi qualcuno le tiri fuori, altri ne approfittano per affondare chi è già bruciato, tirando fuori dell’altro ai propri scopi: è quello che sta succedendo da quando abbiamo iniziato a trascrivere quello che Facciolla ha detto a Salerno, per esempio. Per evitare episodi simili, quindi, sarà bene fare qualche altra ricerca per tracciare l’identikit di questo promosso. E una cosa tra gli archivi salta fuori.

Un’interrogazione a risposta scritta 4/33846 presentata da Nicola Vendola in data 2001/02/06. In questa interrogazione ritroviamo molti indizi dalla Stampa, troppi per non pensare che si tratti proprio della persona con quel numero di fascicolo. Innanzitutto, i voti riportati dal quotidiano e si aggiunge che “la suddescritta terna di voti era stata conseguita, in tutto il concorso, unicamente da un candidato”; trova ulteriore conferma un altro aspetto: “l’Ispettore del Ministero, dottor Mauro, durante l’interrogatorio (…) chiede di conoscere quali erano state le motivazioni che giustificassero la movimentazione del suo fascicolo. Lo stesso racconta che il tutto era nato da una sua richiesta di diventare collaboratore dell’Ufficio indagini della F.I.G.C. (Federazione Italiana Gioco Calcio)” – come riportato dalla Stampa. Insomma, come si dice, la verifica incrociata restituisce un solo nome: Francesco Filocamo. L’oggetto dell’interrogazione di Vendola. Origini calabresi.

Un cognome che è in comune ad una schiatta di magistrati imparentati. Come appunta Quirico. La moglie del dottor Felice Filocamo e madre del dottor Francesco Filocamo, è essa stessa magistrato; il figlio del dottor Felice Filocamo, dottor Fulvio Filocamo, è esso stesso magistrato; il nipote del dottor Felice Filocamo, é il dottor Gerardo Dominijanni, anch’esso magistrato. La Stampa si chiede: una volta appurata l’irregolarità di quel concorso, cosa succederà? Le sentenze dei magistrati di quel concorso saranno nulle e le “vittime” di questi magistrati, vanno risarcite? Ma dopotutto, anche qualora il radar della legge non segnali nulla, quello della giustizia insorge, soprattutto alla luce di quanto il cognome Filocamo rappresenta.

La famiglia Filocamo è l’esatta rappresentazione del Potere in Italia, nel bene e nel male. Di come lo Stato, sia sempre più un potere, un leviatano, un calamaro da mille tentacoli. Non solo magistratura, ma anche politica. Infatti, in un’altra interrogazione, questa volta regionale del 2000, viene messo in luce che tra i componenti tecnici dell’Agenda 2000 viene nominato Felice Maria Filocamo e ci si chiede se sia il fratello dell’assessore alla sanità di allora che è appunto un Filocamo, perché in tal caso ci sarebbe un’evidente anomalia. Non solo politica, ma anche economia. In un libro, Gomez e Barbacetto ricostruiscono i rapporti tra parenti e società e in particolare Giovanni Filocamo (ex direttore dell’Asl di Locri ed ex assessore alla sanità) ha un fratello, Felice (a riscontro di quanto si dice nell’interrogazione) che è presidente della Sorical. In una terra come la Calabria (e perché no, l’Italia) come si concilia tutto questo con l’uguaglianza, l’equità concreta, con il fornire pari opportunità e garanzie a tutti?

Ma come se tutto questo già non fosse un groppone pesante da mandar giù, quasi tutti i componenti, oltre ad aver in comune una toga, hanno in comune l’essere indagati. Che sia Catanzaro o Reggio, De Magistris o l’indagine Primavera, abuso d’ufficio o mafia, poco importa. Perché a quanto risulta nessuno di questi procedimenti poi giunge a condanna. C’è dell’altro? Una piccola chicca per dare ancora più plasticamente l’immagine del potere in Italia prima di tirare le fila del discorso.

Un Felice Maria Filocamo figura anche tra gli appartenenti al C3 International, una sorta di lobby nata per portare avanti e unire i calabresi nel mondo. E infatti troviamo all’interno quasi tutti i calabresi che contano e non solo. Stampa, magistrature, grandi aziende, politica. Non manca nessuno, un organigramma delle varie articolazioni del potere. Quella della C3 è un’iniziativa lodevole se non fosse sporcata dal fatto che molti degli appartenenti sono stati indagati o sospettati di appartenere a logge massoniche non esattamente regolari. Anche in questo caso rari o assenti i casi di condanne, ma a questo punto quasi ce lo si aspetta.  Il fatto è che in questo intreccio di relazioni e parentele viene il legittimo dubbio che succeda questo: si potrà mai condannare un cugino o un compagno di cena nella C3? O viceversa, se ho per le mani soldi pubblici, perché non fare un regalo al mio commensale? A chi non verrebbe una tale tentazione scagli la prima pietra. Poi magari sono tutti animati da uno spirito lodevole, ma non è una visione che concilia con la democrazia, la trasparenza e l’indipendenza.

Di fronte a tutto questo, alla domanda della Stampa: cosa succede se qualcuno di questi incappa in problemi? La risposta la sappiamo: niente. In finanza, quando una grossa banca va in perdita si deve far di tutto per salvarla perché altrimenti si tira giù uno Stato intero. Si dice too big to fail. Troppo grossa per fallire. È all’incirca un vecchio detto popolare riciclato in salsa Wall Street: chiova semp ndu bagnatu; le disgrazie ai disgraziati, le fortune ai fortunati. Cosi è in questi casi: se anche una sola cosa venisse fuori, la più innocente rischierebbe di tirarsi giù tutti gli altri, perché se uno ha un peccato devono averlo tutti. O tutti o nessuno. Lo abbiamo detto prima, altrimenti non funziona.

E qua in Calabria, dove non c’è bisogno di indossare doppiopetto e parlare bene lo sappiamo bene perché queste cose sono già venute fuori e tornano periodicamente. Escono fuori sfrontate, caparbie, sdegnose e vanno insieme per strada, nei circoli, nei ristoranti … a mangiare calamari.