Il “capo dei capi”. Da Cutro fino a Cosenza, passando per Lamezia Terme, Cirò, Corigliano Rossano, Cassano e San Giovanni in Fiore. Come dire: dal mare alla montagna. Nicolino Grande Aracri, a parere del boss pentito Giuseppe Giampà, figlio del più noto Francesco detto “il professore”, capobastone storico del Lametino, esercitava la sua nefasta influenza, almeno fino al 2013, sulla quasi totalità dell’area centrosettentrionale della Calabria.
L’ultima parola sulle decisioni più importanti spettava a lui. Chi scatenava guerre, conflitti e “tragedie” capaci di compromettere la buona riuscita degli affari, doveva rendergliene conto. “Manu i gumma” – così lo chiamano negli ambienti della ‘ndrangheta – aveva infatti vinto la guerra nel Crotonese e poi imposto la “pace”.
Tra i territori sotto il suo assoluto dominio c’era la Sila. Un’area ricca d’interessi legati al turismo e alla produzione agricola e pure florido mercato per lo spaccio al dettaglio degli stupefacenti. Tutti sapevano – comprese le cosche confederate di Cosenza, Rende, Paterno e Roggiano – che quello era diventato riserva di caccia di “don Nicolino”.
La circostanza singolare è che la “reggenza” dell’area silana e della ‘ndrina di San Giovanni in Fiore, cioè della città più popolosa e importante dell’Altopiano, era stata affidata a Giovanni Spadafora. Già, proprio all’uomo, autista di Antonio Dragone, il padrino di Cutro rivale storico di Nicolino Grande Aracri, scampato all’agguato costato la vita al suo capo nel 2004.
Dragone era stato inseguito sulle colline di Crotone mentre viaggiava a bordo di una Croma blindata guidata da Spadafora e quando i killer avevano raggiunto e bloccato il mezzo, sparando decine di colpi di kalashnikov, mentre il boss era sceso cercando scampo nelle campagne circostanti, l’autista era stato volutamente “graziato” dai sicari.
Gli attentatori, infatti, avevano inseguito e ucciso il capobastone, disinteressandosi del conducente. Presentatosi successivamente a rapporto dal boss dei boss nel febbraio e marzo del 2013, il “reggente” di San Giovanni venne trattato con minacciosa sufficienza.
“Facevi l’autista a Dragone – gli disse Grande Aracri guardandolo dritto negli occhi – ti è andata bene, te la sei scampata! A quell’epoca non ci interessavi, sennò finivi male. Ci interessava solo lui..”. Eppoi: “Ti hanno messo a San Giovanni in Fiore… e io qua ti potrei gacciare (prendere a colpi d’ascia, ndr) perché nessuno può fare niente se non lo so pure io…”. Come dire: devi ubbidire e basta. E così è stato.
Giovanni Spadafora, nel dicembre del 2020, è stato condannato a 10 anni e 4 mesi di reclusione proprio per il ruolo apicale esercitato per conto della ‘ndrangheta nell’area silana. Un ruolo mantenuto ed esercitato sotto l’egida di “don Nicolino” ma “sporcato” dal fatto che il fratello Vittorio Spadafora, a sua volta condannato a 3 anni e 8 mesi, ha deciso di collaborare con i pm della Dda di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri.
Il pentito ha fornito molti particolari sulle attività della ‘ndrina guidata dal germano in relazione pure ai contatti istituzionali, politici e imprenditoriali intessuti negli ultimi anni. Ora, proprio insieme al “capo dei capi” passato recentemente dalla parte dello Stato, Spadafora potrebbe fornire elementi utilissimi per far luce sull’omicidio dell’imprenditore Tommaso Greco, avvenuto nel 2001 a Lorica. L’imprenditore era il fondatore dell’azienda iGreco, oggi famosa in tutta Europa. Fonte: Gazzetta del Sud
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