La Calabria e il (non) voto: ora serve la “disperanza”

Questa bellissima intervista del giornalista Enrico Fierro al professore Vito Teti è stata realizzata dopo il voto del 26 gennaio in Calabria. Oggi che sappiamo di dover tornare al voto dopo la scomparsa di Jole Santelli torna di estrema attualità. Per non ripetere gli stessi errori. 

di Enrico Fierro

Fonte: Il Fatto Quotidiano

Ancora una volta il voto ci offre l’immagine di una Calabria che si tuffa nel passato. La maggior parte dei calabresi non vota, e quelli che lo fanno resuscitano Berlusconi e mandano in Consiglio regionale uomini della Lega. Con l’indigesto contorno, di trasformisti e impresentabili eletti a furor di popolo. C’è materiale in abbondanza per disperarsi, per dire che è la solita Calabria che non cambia mai.

“Sono d’accordo solo in parte con questi giudizi. Più che di disperazione o di speranza, io parlerei di disperanza, un sentimento che i calabresi farebbero bene a coltivare”.

Vito Teti, antropologo di fama mondiale, è calabrese fino al midollo. Gira il mondo e scrive (libri, saggi, commenti per riviste e giornali nazionali), vive a San Nicola da Crissa, poco più di mille anime sulle pendici del monte Cucco.

Professore sarà difficile spiegare la disperanza.

Capisco, è un termine che suona come un ibrido di due opposti, lo uso come un possibile spunto per aiutarci a tentare di immaginare una prospettiva di riapertura al futuro, alla speranza, di sintesi e superamento di questa impasse culturale.

Una impasse che rischia di uccidere la Calabria e i calabresi.

Noi calabresi dobbiamo imparare ad essere lucidi, critici, a guardare la realtà nella sua crudezza. Ciò non deve indurci alla rassegnazione, ma all’impegno per progettare il cambiamento. Quando tu metti in gioco queste cose metti in moto la speranza. È una lezione che ci viene da Corrado Alvaro, il suo pessimismo non escludeva la speranza e l’utopia. I grandi pensatori calabresi si sono sempre mossi entro questi due poli, Campanella, Gioacchino da Fiore, criticavano lo status quo e il potere in modo feroce, ma nello stesso tempo coltivavano l’utopia, prospettavano la possibilità di mondi nuovi.

Intanto, però, quasi il 60% dei calabresi non vota.

C’è chi non vota per protesta, ma tanti non votano per apatia e rassegnazione. Perché tanto sono tutti uguali, tutti ladri, nessuno pensa al popolo. Qualunquismo. Alla fine la conseguenza è che vincono i vecchi gruppi di potere. Non si vota perché prevale uno sguardo disperato sulla realtà. Ultimi per qualità della vita, primi per criminalità organizzata, ultimi per la sanità, primi per corruzione, la Calabria contribuisce a rafforzare questa idea di essere terra ultima, al punto che neppure vale la pena occuparsene, come è accaduto durante le ultime elezioni. Certo, è vero che c’è uno sguardo ostile nei confronti di questo lembo d’Italia, ma ci dobbiamo chiedere se noi calabresi non contribuiamo a rafforzare lo stereotipo.

I calabresi, diceva Corrado Alvaro, “vogliono essere parlati”. Sono alla ricerca di una narrazione che aiuti a capire, che rappresenti la realtà senza pregiudizi e luoghi comuni. Come viene raccontata la Calabria?

Male. O è tutto mafia, o tutto sole, mare e cibo buono. Bisogna smetterla con l’adottare uno sguardo retorico o edulcorato. Il problema è anche come ci raccontiamo noi calabresi. Basta con la retorica della Magna Grecia, lo diceva Corrado Alvaro, mentre i braccianti poveri fuggivano all’estero, gli intellettuali locali si rifugiano nella retorica della classicità. Serve uno sguardo lucido, realista, senza autoassolverci, senza dare la colpa sempre agli altri. In più dobbiamo uscire dalla logica di una narrazione dove da un lato ci si sente assediati quando gli altri ci dicono come siamo, dall’altro, quando non si parla di noi calabresi, ci sentiamo trascurati. La Calabria è fatta di contraddizioni, di contrasti. È un agglomerato di passaggio di popoli, di separazioni, ha una storia di catastrofi, di vicende drammatiche, di emigrazioni. Lo sguardo deve essere complesso. Ma qui c’è un problema serio, l’incapacità delle élite di elaborare una identità autonoma, una soggettività propria ed una identità che è necessariamente plurale.

Il voto ci racconta dell’eterno ritorno delle vecchie élite.
I calabresi hanno scelto i soliti gruppi di potere, soffrono di retrotopia, il passato sembra garantire l’oggi e non il futuro. Un atteggiamento che ovviamente le vecchie classi dirigenti coltivano ben volentieri. Basta vedere i cambi di schieramento alle ultime elezioni, pensi che un ex di Rifondazione comunista si è candidato nelle liste della Santelli ed è stato eletto. I gruppi di potere calabresi stabiliscono un rapporto meramente clientelare con gli elettori.

A destra, al centro e anche a sinistra.

La sinistra calabrese da anni è lontana dai sentimenti e dai bisogni dei ceti popolari. In quanto a clientelismo non si è affatto distinta dalla destra. Lo ha praticato, ha favorito lobby e gruppi amicali, non ha pensato al bene della Calabria. Ma come volevano convincere un giovane a tornare per votare, con quale autorevolezza?.

I giovani vanno via e la sua terra muore, professore.

Il giovane che va via è un disperato, perché sa che non tornerà più. In passato l’e m igrazione diventava un fattore di trasformazione per la realtà da cui si partiva, la migliorava, c’era la speranza di un ritorno. Oggi l’emigrazione del giovane che si forma qui, studia qui, porterà il suo capitale sociale e culturale fuori, impoverisce la Calabria.
Da questo punto di vista si ha una grande rottura anche antropologica rispetto al passato, il ritorno non viene nemmeno messo nel conto perché si sa che tra dieci anni le cose non cambieranno. Ma dentro questo dramma, me lo lasci dire, c’è il dolore della mia generazione. Di quelli che hanno studiato grazie a padri che sono andati all’estero, e che per tutta la vita soffrono di una doppia mancanza, da giovani l’assenza del padre, da adulti quella dei figli che vanno via. In Calabria la classe politica non garantisce il diritto di restare.

Eppure, qualcosa sembrava muoversi. Le manifestazioni a favore di Gratteri, la Sardine, Mimmo Lucano. Altre illusioni?

Siamo una terra contraddittoria, di slanci e di apatie, di grandi sogni e di grande sonno, di autonomia e subalternità al potente che ti assicura qualcosa. Quella società civile che potrebbe rompere queste contraddizioni, non viene incoraggiata. Mimmo Lucano è un calabrese che sicuramente ha sognato, ma ha anche mostrato che l’identità non è quella dell’io sono perché mi proclamo così, ma è una identità del fare, io sto facendo, sto mostrando una immagine nuova e realizzando qualcosa per il bene comune. Ecco un esempio vero di disperanza.