La clinica Misasi e il diritto alla dignità della malattia

La clinica Misasi

Abbiamo ricevuto in redazione la lettera di protesta di un nostro lettore. Si lamenta di quanto succede alla clinica Misasi (una delle cliniche della famiglia Morrone), dove c’è poco rispetto per la sofferenza dei malati.

Ci ha chiesto di rimanere anonimo e capiamo la sua posizione.

Sua madre è ancora ricoverata là dentro.

Noi ci auguriamo soltanto che chi di dovere capisca la situazione e renda migliore la degenza di persone che hanno diritto alla dignità della malattia.

“Mia madre ad agosto ha avuto un ictus e da più di un mese è ricoverata in una clinica privata convenzionata per la riabilitazione. Non è la clinica che avevo richiesto io: in ospedale, quando hanno disposto il trasferimento in una struttura per la riabilitazione, mi hanno detto che in quella non c’era posto… solo da poco ho scoperto che lì non c’era, e tuttora non c’è, alcun problema di posti; ma in quei momenti frenetici ho tempo a mala pena per pensare, figuriamoci contattare personalmente la struttura che desidero per mia madre!

Ho tempo solo per dire un sì o un no: e, a malincuore, dico sì. Conosco per fama la struttura in cui sta per andare mia madre, la clinica Misasi di piazza Crispi, so che si regge in piedi con lo sputo, che chi ci lavora dentro fa le acrobazie per tirare avanti al meglio possibile la baracca, so però che ha uno staff eccezionale per la riabilitazione… Mi consolo con questo. Arrivo in clinica, al seguito di mia madre, in un primo pomeriggio dal caldo afoso, ancora più afoso nella stanza assegnata a mia madre, esposta inesorabilmente al sole del primo pomeriggio, con il climatizzatore rotto. Una stanza angusta, a stento vivibile anche per un solo degente (e parlo di degenti quasi completamente immobili nel letto, con pannoloni e cateteri). In quella stanza, di degenti, quel pomeriggio, oltre a mia madre, ne è stata ricoverata un’altra.

C’è un terzo letto; lo guardo. Fedele ai miei principi, che tutti, senza alcuna distinzione, hanno diritto alla salute e, in caso di ricovero, a una dignitosa e decorosa degenza, mi dico: “Pura follia mettere tre degenti in questa stanza: sicuramente non lo faranno mai”.

C’è un ventilatore a soffitto, che funziona, a rendere respirabile l’afa di quella stanza: basta solo stare attenti a non accendere la luce centrale, perché il ventilatore è sotto al lampadario, quindi le pale, girando, creano un effetto psichedelico che va diritto negli occhi di chi occupa il letto centrale: non certo il massimo per chi ha da poco avuto un ictus.

Mia madre ha il letto centrale. Il caldo afoso col passare dei giorni aumenta, diventa intollerabile, al punto da indurmi a portare in quella stanza un ventilatore da casa, per tamponare in qualche modo. Mi dicono che il terzo letto sta per essere occupato: faccio un casino, minaccio denunce. Il terzo letto resta vuoto. I miei principi, ormai, vacillano, sempre più, ad ogni secondo che passa.

Inizio a spremermi il cervello per capire cosa posso fare, a chi posso rivolgermi per garantire a mia madre una decorosa degenza.

ospeda

Poi capisco cosa posso fare: sconfitta nei miei principi, vergognandomi di me stesso, chiedo aiuto. Mia madre nel giro di 24 ore viene spostata in una stanza spaziosa, ariosa, dignitosa, col climatizzatore funzionante. Il ventilatore che ho portato da casa resta nell’altra stanza: c’è la degente ricoverata insieme a mia madre, in quella stanza… No, ce ne sono due… Anzi, no… ce ne sono tre: perché anche il terzo letto non è più vuoto.

Il diritto alla dignità della malattia e della degenza non è proprietà privata. E l’estate afosa non vuole saperne di andarsene. Io intanto ho reso mia madre una degente raccomandata.

Penso: “Devo solo fare pace con me stesso e i miei principi e finalmente posso riprendere a respirare, almeno per quanto riguarda la degenza”. Illusione. Anche essere una degente raccomandata, finora, non ha evitato a mia madre di subire la sfuriata di un operatore sanitario che, mentre le cambiava il pannolone, le ha urlato furibondo nelle orecchie inni di lode al Signore che mia madre gli aveva chiesto di non cantare perchè era stremata da un pomeriggio in cui era stata male.

Non le ha evitato che una operatrice sanitaria, infastidita dalle troppe volte che mia madre aveva suonato per chiedere assistenza, allontanasse la maniglia che mia madre usa per aiutarsi a muoversi per quel poco che può nel letto, maniglia alla quale è legato il cavo del campanello.

Non le ha evitato di ricevere come pasto semolino o pastina prima infanzia (che prima di arrivare al degente hanno tutto il tempo per diventare simili al cemento) fino alla nausea, fino a dire basta, non mangio; pasta del tutto cruda o disfatta per quanto è cotta, condita con qualcosa che dovrebbe essere olio; carne o pesce che puzzano di marcio in piatti gonfi e deformati; scatolette di tonno all’olio.

L’unica cosa che ora mi fa respirare? Mia madre da due giorni la fisioterapia la fa in piedi, sulle sue gambe… ma la strada è ancora lunga, la degenza è ancora lunga… E, nonostante mia madre sia una degente raccomandata, ora non posso fare a meno di chiedermi se questo mio sfogo avrà conseguenze su di lei, se non avrei fatto meglio a continuare a limitarmi ad assistere e prendere nota dentro di me, continuando a ingoiare in silenzio, in attesa di parlare solo a dimissioni avvenute, continuando a prendere a calci i miei principi.

Lettera firmata