La maledizione del 40%: dopo Renzi, tocca a Salvini

di Francesco Cancellato

Fonte: linkiesta.it

A salire troppo in alto finisce per mancare l’aria, evidentemente. Altrimenti non si può spiegare come due leader che sembravano in possesso di un tocco magico da predestinati della politica abbiano cominciato a sbagliarle tutte, o quasi, appena ascesi a percentuali di consenso bulgare. È successo a Renzi, dopo le europee del 2014. Sta succedendo, pari pari, a Matteo Salvini, dopo quelle del 2019. Gli ingredienti sono gli stessi: il massimo storico alle elezioni, un coro di peana per lo straordinario successo, la prospettiva delle urne anticipate per capitalizzare subito il consenso, l’esitazione fatale. E poi, improvvisamente, la caduta: un affaire giudiziario che mette pressione, il fuoco amico da cui guardarsi, l’isolamento in Europa, e più in generale una polarizzazione di tutto il dibattito politico attorno alla propria figura che finisce per ricompattare tutti contro di te. E quel maledetto 40% che anziché una straordinaria maggioranza relativa, diventa minoranza assoluta.

Così è andata per Renzi, così rischia di andare per Salvini, che è a mezzo passo per fare avverare la profezia di Giorgetti, che gli consigliò di mettere sulla scrivania una foto dell’altro Matteo, per non commettere gli stessi errori. Ne ha fatto parecchi di errori il Capitano, non solo quello della plateale apertura della crisi: non ha avuto il coraggio di andare a votare subito per fare un governo di centrodestra e ribaltare il Parlamento a sua immagine e somiglianza, preferendo giocare di sponda coi Cinque Stelle, esattamente come Renzi credeva di poter giocare di sponda con Alfano e Berlusconi. La rottura del patto del Nazareno ebbe luogo qualche mese dopo, con l’elezione di Mattarella a Presidente della Repubblica. Così come adesso è andato in frantumi il patto gialloverde.

Il secondo errore era arrivato a stretto giro. Come Renzi con il caso di Banca Etruria che coinvolse il padre di Maria Elena Boschi, anche Salvini si è impantanato in una vicenda limacciosa come quella del Russiagate, infilando un errore di comunicazione dopo l’altro, come quando ha dichiarato di non conoscere Savoini nonostante le foto che li ritraggono assieme, tradendo imbarazzo, agitando complotti. Intendiamoci: mettere la parola fine a queste vicende è tutto fuorché semplice. Ma così facendo, Salvini si è autocondannato anche in questo caso a un contrappasso renziano: lo spettro del Russiagate lo accompagnerà fino alla fine della legislatura e non sarà un bel camminare.

Soprattutto, aggiungiamo, perché a ricordare a Salvini di Savoini e dell’Hotel Metropol saranno soprattutto i suoi compagni di avventura del Movimento Cinque Stelle, così come per Renzi fu la minoranza interna al Partito Democratico. In entrambi i casi, è l’istinto di sopravvivenza che parla. Bersani e i suoi sapevano benissimo che sarebbero stati decimati in Parlamento se Renzi fosse arrivato fortissimo alle urne, e la stessa cosa la sanno i Cinque Stelle. Per questo, il bombardamento è quasi fisiologico. Per Renzi, a un certo punto, il fuoco amico divenne quasi un’ossessione, suggellata dal brindisi di D’Alema e Speranza dopo la sconfitta referendaria. Per Salvini, l’ossessione è quella di un ribaltone dei Cinque Stelle e al posto del Lider Maximo c’è Giuseppe Conte, sempre più leader dei pentastellati che vorrebbero affrancarsi dal Capitano. Il fatto che fosse andato lui stesso, il presidente del Consiglio, a riferire sul Russiagate al posto di Salvini era stato uno sgarbo non da poco, che aveva già scavato un solco profondissimo tra i due. Ovviamente esasperato dalla recentissima mozione di sfiducia con annessa grottesca retromarcia.

Nel frattempo, al pari di Renzi, Salvini non è riuscito a tradurre in potere lo straordinario exploit elettorale del 26 maggio. Se c’è una forza politica fuori da tutti i giochi di Strastburgo e Bruxelles quella è proprio la Lega di Salvini, che non ha votato la Von der Leyen, che con ogni probabilità non avrà alcun commissario e che nel frattempo deve registrare le bordate dei (fu) alleati ungheresi e polacchi, che da bravi figli della Nato non vedono di buon occhio chi fa troppi affari con Putin e indispettisce l’amico americano. Così come Renzi, anche Salvini rischia di pagare salato l’isolamento europeo. Con l’aggravante, in questo caso, che non c’è nemmeno una famiglia europea in grado di difenderlo.

Anche con i sondaggi molto presto ci sarà poco da essere allegri: finché sono sondaggi, e non voti, Salvini non può farsene nulla e ormai si è già avviata la parabola discendente. Una situazione che ha polarizzato talmente tanto il dibattito politico su di lui, da risultare un boomerang, poiché spinge fisiologicamente tutti gli altri a coalizzarsi, per fare da argine a lui e alla celeberrima deriva autoritaria, che fu la tomba della riforma renziana e che rischia di essere, al pari, il vero punto di caduta del salvinismo di governo. L’irrituale incontro coi sindacati al Viminale, in questo senso, è stato il più classico dei segnali di onnipotenza che ha agitato i sonni degli altri poteri italiani, dalla burocrazia alla magistratura, sino alla Chiesa. Renzi sa bene cosa succede, quando tutti quei mondi decidono che il nemico sei tu. Salvini lo sa? A giudicare dal suo atteggiamento, non si può che rispondere negativamente.