La questione meridionale non è solo un problema di divario tra nord e sud

di Emanuele Felice

Fonte. Domani

La questione meridionale è il più grande nodo irrisolto del nostro paese, ormai da centosessant’anni. È un problema di disuguaglianze fra nord e sud, certo.
Ma spesso si tende a sottovalutare che è anche un problema di disuguaglianze dentro il Mezzogiorno, fra i cittadini meridionali. Sin dalle origini, quando non a caso si chiamava «questione sociale».

Nel 1861, secondo le stime, il sud era solo un po’ più povero del centro-nord (non ancora industrializzato). Fatta 100 la media italiana, nel Pil per abitante, il sud arrivava a 90. Tuttavia, il Mezzogiorno era molto più arretrato in termini sociali: analfabetismo, livelli di mortalità, nutrizione, percentuale di persone sotto la soglia di povertà. Questo perché molto maggiore era la disuguaglianza. La classe media, quella propriamente «borghese», era debole, subordinato a un ristretto ceto di possidenti che prosperava grazie alla rendita delle terre, coltivate dalle moltitudini di braccianti.

Il blocco agrario
Guido Dorso lo chiamò il «blocco agrario»: la subordinazione sociale e culturale della borghesia agli interessi dei latifondisti, e a scapito della modernizzazione sociale ed economica. Quel blocco avrebbe guidato politicamente il Mezzogiorno nello stato unitario, alleandosi con la borghesia del nord.
Insieme, agrari e industriali, vararono le prime tariffe protezioniste, fra il 1878 e il 1887: accanto a misure per la siderurgia e il tessile, spiccava il dazio sul grano, che proteggeva il latifondo meridionale, cioè l’interesse dei grandi possidenti assenteisti, imponendo un dazio sull’importazione dei cereali dai paesi stranieri; e pure al prezzo di far pagare di più il pane, ai braccianti come gli operai delle nascenti industrie del nord.
Difatti, il periodo di maggiore ampliamento dei divari nord-sud va dall’inizio del Novecento alla Seconda guerra mondiale. In quel periodo, cominciava a formarsi il triangolo industriale (Milano, Torino, Genova), mentre il sud Italia rimaneva immutabilmente agrario (si pensi che nel sud la quota di occupati nell’agricoltura rimase pressoché immutata fra il 1911 e il 1951, intorno al 60 per cento). Le politiche pubbliche, soprattutto quelle dello stato fascista, contribuirono a un tale esito.

La «battaglia del grano», di cui amava vantarsi Mussolini, altro non era (in buona parte) che un ulteriore sostegno al latifondo estensivo e improduttivo, attraverso un rafforzamento del dazio sul grano. L’opera di bonifica controbilanciò solo in parte questa tendenza, dato che fu fermata quando si propose di riformare il latifondo assenteista. Contemporaneamente, le esigenze della guerra mondiale favorivano la concentrazione degli aiuti pubblici verso le industrie del nord, ingranditesi dalle commesse belliche e poi, quando fallivano, salvate dallo stato.

Sud e miracolo
I divari regionali toccarono l’apice nel 1951, alla vigilia del miracolo economico: nel Pil per abitante, fatta 100 l’Italia, troviamo ora il Mezzogiorno sceso a 61, il nord-ovest salito a 152. A questo punto, però, per la prima volta, il trend si inverte.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, il sud Italia cresce come mai nella sua storia, e lo fa a un ritmo superiore anche al centro-nord. Sarà il «miracolo economico», cui l’economia meridionale partecipa in modo determinante. In termini relativi, all’inizio degli anni Settanta il sud ha recuperato 10 punti, con un reddito medio che si attesta a oltre il 70 per cento della media italiana.

Gli studiosi concordano oggi nell’attribuire il merito di questa convergenza alla Cassa per il Mezzogiorno (sì, proprio lei, la tanto vituperata), cioè alle politiche pubbliche che furono attuate a quel tempo per industrializzare il sud Italia. A differenza di quello che sarebbero diventate dopo, negli anni Settanta e Ottanta, quando caddero (a ragione) nel discredito, ne primi due decenni esse furono complessivamente bene impostate: inizialmente volte a supportare la riforma agraria e a realizzare indispensabili opere infrastrutturali (strade e acquedotti soprattutto), dalla fine degli anni Cinquanta cominciarono a finanziare i nuovi impianti industriali, principalmente pubblici (anche perché alle nostre aziende di stato fu imposto di destinare il 60 per cento dei nuovi investimenti alle regioni meridionali). Il Mezzogiorno si modernizzava, avvicinandosi al centro-nord sia nella quota di addetti all’industria, sia nella produttività del lavoro. E l’Italia svettava per tassi di crescita fra le grandi economie capitaliste, terza dopo Germania e Giappone. Diventammo un paese avanzato: l’epoca della nostra massima crescita coincise, anche, con l’unico periodo di riduzione del divario nord-sud.

Deriva del sud e declino dell’Italia
Questo modello entra in crisi negli anni Settanta. Per una ragione esterna, difficilmente prevedibile (la crisi petrolifera che mise in difficoltà i grandi impianti fordisti intensivi in energia, proprio quelli realizzati dall’intervento pubblico nel sud Italia) e una interna, però, che rimanda ancora una volta alle condizioni sociali del Mezzogiorno: la progressiva interferenza della politica, la quale rese l’azione della Cassa sempre più inefficace, sempre più dispersiva e, soprattutto, distorsiva: perché favoriva la ricerca di rendite di posizione, clientelari; e a volte finanche gli interessi della grande criminalità organizzata (che cominciò proprio allora l’epoca della sua massima affermazione). Nel 1976, addirittura, fu concesso alle regioni, nate da pochi anni, di nominare propri rappresentanti nel consiglio di amministrazione della Cassa. Il punto è che la pratica politica dell’Italia meridionale, in buona parte (c’erano naturalmente eccezioni, specie a sinistra), non aveva mutato i suoi tratti di fondo rispetto all’epoca liberale: solo si era adeguata nel passaggio dal voto basato sul censo, riservato a una minoranza, alla democrazia di massa.
La classe dirigente «estrattiva» del sud Italia non era più costituita dai baroni dell’Ottocento e del primo Novecento, adesso, ma dal mediatore politico, fra centro e periferia. Per estrarre cosa? Non più la rendita della terra, come ai tempi dei baroni. Ma quella che veniva dai flussi di denaro pubblico.

Peraltro, anche l’antico ceto dei possidenti partecipava a suo modo a questa estrazione, benché in una nuova forma (e in questo caso non attribuibile all’azione della Cassa): perduti i latifondi, i vecchi baroni con gli indennizzi della riforma agraria a partire dagli anni Cinquanta si erano trasformati, perlopiù, in costruttori. Legati anche loro a doppio filo con la politica, alle sue concessioni e piani regolatori, per fare impresa.
Il sud Italia da allora smise di convergere. Se avesse continuato allo stesso ritmo, a quest’ora avrebbe raggiunto i livelli di Pil del centro-nord: avremmo risolto la questione meridionale. Meno noto è però che il sud Italia è rimasto anche, da allora, un’area in cui le disuguaglianze sono più elevate che nel resto d’Italia; e questo nonostante sia, mediamente, molto più povero. La disuguaglianza dei redditi dentro il Mezzogiorno, con le istituzioni e le conseguenze sociali e culturali che porta con sé, è l’origine storica della disuguaglianza fra il Mezzogiorno e il resto del paese; ed è tuttora uno degli ostacoli principali sulla strada del suo sviluppo.

La questione meridionale è ancora una questione sociale, come dicevano i primi meridionalisti. Con 20 milioni di abitanti (grosso modo il doppio della Grecia, o del Portogallo), il sud Italia rappresenta oggi la più grande area in ritardo di sviluppo di tutta l’Europa occidentale. Ed è un terzo dell’Italia. Il suo Pil pro capite si attesta oggi, nel 2020, sul 68 per cento della media italiana, un po’ più basso del livello raggiunto nei primi anni Settanta; anche per quel che riguarda più in generale la qualità della vita e gli indicatori sociali, sistematicamente troviamo tutte o quasi le province del sud in fondo alle classifiche.
Ma così come l’Italia tutta è cresciuta di più, e meglio, quando anche il sud si sviluppava, con l’arenarsi e poi la deriva del Mezzogiorno a poco a poco anche l’Italia tutta è entrata in una fase di declino. Dall’inizio degli anni Novanta fino alla crisi pandemica, il nostro è stato il paese con il più basso tasso di crescita di tutto il mondo avanzato. «L’Italia sarà quello che il Mezzogiorno sarà», profetizzò Mazzini, auspicando un Risorgimento diverso, democratico e repubblicano, capace di misurarsi con la riforma agraria e la questione sociale. E aveva ragione, anche oggi.