Le due facce di Ferramonti

Oggi sono stato a Ferramonti di Tarsia, li dove un tempo, non molti anni fa, ci fu un Campo di concentramento nazi fascista che recluse, offese ed umiliò più di 2 mila persone nel corso di un triennio; ci sono andato con lo stesso spirito di quando, alla domenica mi reco al Camposanto per far visita ai miei cari; non mi interessava il museo in se, le foto, gli ambienti ricostruiti, la corrispondenza fotocopiata e riposta nelle bacheche; nulla di tutto ciò; volevo calpestare la stessa terra che hanno calpestato quegli esseri umani, provare a respirare la stessa aria, provare ad immaginare lo stesso orizzonte; cercare in quelle pareti di pietra, in quella terra, in quell’aria, qualcosa che potesse farmi sentire per un attimo, per un solo attimo uno di loro.

Cammina, cammina, avanti, indietro, a destra, a sinistra, non ci sono riuscito; è difficile immaginare che per poter perseguire uno scopo, ignobile, immondo, individuate le forze avverse, queste si debbano annientare, e che per farlo si possa utilizzare il popolo, compiacente, ignorante ed asservito; perché questo è stato il progetto scellerato del nazi-fascismo: con la scusa della superiorità della razza, tanto in auge tra i populisti del tempo, si è consumato il genocidio degli Ebrei, perché tra loro vi era il fior fiore della intellighenzia europea, che avversava il progetto di Hitler e dell’utile idiota Mussolini; ed in quel genocidio, c’è stato lo spazio ed il tempo per liberarsi di tutti coloro che in qualche modo potevano ostacolare il progetto; tutti quelli che sembravano o potevano sembrare un peso per una società che vedeva solo chi produce; la stessa gente, lo stesso popolo che quando questi programmi si spiegavano urbi et orbi, riempiva le piazze, si assiepava sotto i balconi, incitante ed incitata; pochi protestavano, ma vennero calpestati, imprigionati ed uccisi; quella stessa gente che, ahinoi, qualche tempo dopo, si riversò festante a pisciare sul viso penzolante di chi qualche tempo prima aveva osannato.

I miei pensieri erano confusi e tristi stamane; ho lasciato in fretta il Campo, dietro le parole insulse di chi mi diceva: “…eh, ma qui stavano bene, c’erano anche i medici…” e mi sono portato oltre la strada; ho visto, quindi, sul lato sinistro per chi arriva dalla strada principale, una cascina che aveva le stesse sembianze di quelle che stavano nel campo; mi sono avvicinato ed ho guardato all’interno: si immaginava la vita vissuta ottanta anni fa, gli stessi ambienti che avevo visto prima, senza fiction, reali; ma non c’erano gli internati di Ferramonti, bensì le pecore, un gregge di pecore che aveva lasciato in terra tanta lana; poco più avanti, un’altra cascina era diventata una villa a due piani; ed oltre il ponte dell’autostrada, i porcili, costruiti con gli avanzi delle cascine distrutte del Campo dopo il passaggio dell’autostrada; ed ancora più avanti un altro Campo, pieno di rovi, caduto, dirupo, abbandonato.

Calpestai la terra di quest’altro Campo, l’erba più alta, cercai di coglierne l’essenza; cercai di trovare li quello  che cercavo prima; vidi in terra tanti cocci, un grosso pezzo di marmo bianco; ma nemmeno li, nonostante, tutto, riuscii ad immaginare l’Olocausto.

Eppure questo è stato, non più di 80 anni fa.

Eppure questo si è ripetuto; e si ripete oggi nei lager della vicina Libia, dove vengono uccisi, torturati e stuprati, uomini donne e bambini, in Bosnia, in Siria; si ripete e si ripeterà, colpendo ed annientando ciò che resta dell’umanità; lasciandoci impotenti ed ignoranti; perché un popolo che non conosce la Storia del secolo in cui vive ed ha vissuto e si ostina a studiare quella degli Ittiti, degli Assiri e dei Babilonesi; che non comprende e non combatte le cause delle immani tragedie passate, per non riviverle, è un popolo senza storia, senza speranza, senza futuro; un popolo che continuerà a vivere la fiction del museo di Ferramonti di Tarsia a destra e quello che era il Campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia a sinistra.

Ferramonti di Tarsia, 27 gennaio 2021.                                           

Adriano D’Amico