Mafia-stato e Calabria. La borghesia mafiosa di Reggio, la bomba del 2010 e i “segreti” del Tribunale

Stiamo pubblicando ormai da tempo alcuni stralci del libro-inchiesta di Francesco Forgione “Porto Franco: politici, manager e spioni nella Repubblica della ‘ndrangheta”. Dopo avere esaminato a fondo i rapporti tra il clan Piromalli e Marcello Dell’Utri per conto di Silvio Berlusconi, l’autore ci spiega la trasformazione della ‘ndrangheta e i suoi mille tentacoli che coinvolgono anche la magistratura e tutto il sistema che gira intorno alla Giustizia a Reggio Calabria. Roba che scotta e che si aggancia in maniera disarmante al caos delle toghe sporche di oggi. Compresi i traffici del Cavaliere e delle sue tv (non ultima la Rai…) con la massoneria, con il vecchio Psi e persino con il Vaticano, con la Calabria sempre protagonista. Ora ci attende l’ultimo viaggio, che ci porterà gradatamente al cuore del problema: la corruzione della magistratura.

Le doppie verità di Reggio

Nord e Sud uniti nella lotta, lo slogan coniato nei cortei dell’autunno caldo del ’69, funziona ancora. Negli ultimi anni è ricomparso in numerosi titoli dei giornali. Il riferimento, però, non è più agli operai delle fabbriche del triangolo industriale e ai contadini e ai disoccupati del Mezzogiorno, ma alle Procure della Repubblica. Al di là degli ultimi risultati raggiunti contro le mafie, è un triste segno dei tempi. Ma tant’è.

Negli ultimi anni, sull’asse Reggio-Milano, tra i magistrati dei due uffici giudiziari è scattato un meccanismo di fiducia reciproca e il lavoro va avanti colpo su colpo. Ma è a Reggio che un intero “sistema” comincia a essere svelato e colpito, ed è la prima volta. Ne esce una misera fotografia della città, del suo potere, della sua borghesia e anche dei suoi giudici. Cambia anche il baricentro della lotta alla ‘ndrangheta. Basta leggere i giornali calabresi, perché per gli altri la ‘ndrangheta ancora neanche esiste: la droga e il narcotraffico ci sono sempre, ma si scrive sempre di più di professionisti, imprenditori, notai, commercialisti, sindaci, consiglieri regionali. E di beni e patrimoni confiscati, come mai si era visto prima. Chissà perché la chiamano zona grigia. O perché, quando si parla della borghesia, c’è sempre bisogno dell’aggettivo, deve essere “mafiosa”. Perché, forse da queste parti quella che non è mafiosa si è mai indignata o ha mai dato un segno di ribellione?

Sono queste complicità e questi silenzi che trasfigurano la realtà in un gioco delle ombre, dove ogni verità sfuma in un’altra e poi in un’altra e in un’altra ancora. Così è stato anche per la bomba che dalle 4,50 della mattina del 3 gennaio 2010, con un boato mai sentito prima, è esplosa davanti al portone della Procura Generale di Reggio. E’ l’inizio di una strategia della tensione, così si era pensato. Gli inquirenti cercano di interpretare la scelta dell’obiettivo, la Procura Generale. Si pensa ad alcuni processi che stanno arrivando in appello e in città si comincia a discutere di procuratori duri e di procuratori morbidi, di giudici giustizialisti e giudici garantisti.

Da poco è pure arrivato un nuovo procuratore generale, Salvatore Di Landro, e bisognerà capire che linea adotterà. Ma siamo a Reggio e questa non poteva essere l’unica pista e l’unica, troppo semplice, verità. Certo, i processi d’appello per i mafiosi spesso sono stati una manna dal cielo: assoluzioni, insufficienza di prove, vizi di forma, scadenze dei termini, prescrizioni. Basta un buon avvocato o un avvocato amico di qualche sostituto procuratore e di qualche giudice ed è fatta. La cosa, ovviamente, non riguarda tutti gli avvocati e tutti i magistrati, perché i colpi ai boss negli ultimi anni li hanno dati anche ottimi magistrati reggini.

A Reggio però ci sono avvocati che sono più buoni di altri solo per questo motivo, perché hanno gli amici giusti e si pensa che sappiano come aggiustare le cose. L’avvocato Lorenzo Gatto, per esempio, era considerato uno di quelli buoni. E’ stato candidato nelle liste di Rifondazione Comunista, quindi era voluto bene a sinistra ma anche a destra ed era pure il difensore del giudice Francesco Neri, che secondo la commissione disciplinare del Csm, da sostituto alla Procura generale di Reggio, dava parere favorevole a troppi patteggiamenti, e per questo motivo nella primavera del 2010 era stato trasferito d’ufficio a Roma. Ora, nella sua posizione, Gatto che poteva fare? Certi suoi clienti che sapevano che difendeva il giudice, pensavano che gli avrebbe potuto parlare. Questo pensavano. A dire il vero, lui non parlava solo con i giudici amici, ma anche con “altri” e per questo si è preso pure una sospensione temporanea dalla professione assieme al suo collega Giovanni Pellicanò.

E’ vero che un avvocato deve dare consigli, aiutare, suggerire strategie di difesa, parlare molto con i clienti, anche se sono boss della peggiore specie. Ma poi basta. Il confine è sottile, e se si va oltre, da difensore e consigliere dei propri assistiti, si diventa consigliori. Ma queste, almeno in parte, sono altre storie.

Con gli auguri al tritolo del 3 gennaio, il 2010 comincia nel peggiore dei modi. La cosa provoca una reazione nelle istituzioni e nell’opinione pubblica. Il governo si sposta a Reggio e in una seduta simbolica annuncia nuove misure antimafia. Il 21 gennaio, in città arriva pure il presidente della Repubblica Napolitano: porta la solidarietà al Procuratore generale Di Landro e al Procuratore della Repubblica Pignatone. E proprio la mattina della sua visita arriva la prima sorpresa: una macchina carica di armi viene fatta ritrovare non molto lontana dal percorso del corteo presidenziale.

Un nuovo segnale che, assieme alla bomba, deve essere capito e interpretato. Il 26 agosto un altro ordigno esplode contro la casa del Procuratore generale Di Landro e questa volta poteva davvero fare molti danni e finire in tragedia. Il 5 ottobre, venticinque minuti dopo la mezzanotte, squilla il telefono al 113 della questura: “Ascoltatemi bene, andate alle bretelle dell’uscita di San Giorgio. Sulla sinistra trovate un bazooka per Pignatone”. Gli uomini della Squadra mobile erano scappati sul posto e lo avevano trovato davvero.

Per capire cosa sta succedendo bisogna mettere in fila fatti, perizie balistiche, riascoltare intercettazioni. E leggere in ogni frammento le doppie verità. In realtà, negli ultimi mesi qualcosa era successo e qualche reazione avrebbe dovuto per forza provocarla.

Il 19 ottobre del 2009 era stato arrestato Luciano Lo Giudice, un imprenditore stracarico di soldi e di attività commerciali che già in passato era stato condannato in primo grado per associazione mafiosa, ma poi – chissà com’era successo – era stato assolto nel processo di appello. I magistrati gli stavano addosso da tempo e per arrestarlo si sono inventati una “furbata”: lo hanno accusati di intestazione fittizia di beni.

In una città piccola come Reggio, dove tutti si conoscono e tutti si frequentano, non è facile prendere un imprenditore e sbatterlo dentro. In genere sono cose che fanno clamore e in passato non si faceva quasi mai. In ogni caso, Luciano non è un semplice imprenditore, è anche uno dei fratelli – nientemeno sono in sedici – della cosca Lo Giudice. Insomma è il braccio economico e finanziario della famiglia. I Lo Giudice a Reggio li conoscono tutti, mafiosi e non. La cosca è sempre stata vicina a Pasquale Condello, il Supremo, uno dei boss più forti e autorevoli della città. arrestato il 18 febbraio del 2008 dopo quasi 18 anni di ricerche di polizia e carabinieri.

Erano loro, i Lo Giudice, che fino al suo arresto lo proteggevano e ne curavano la latitanza. Ma la loro cosca ha anche una caratteristica che nella ‘ndrangheta è unica: dopo la guerra di mafia che ha ridisegnato la geografia criminale della città, hanno rinunciato aò loro territorio, il locale di Santa Caterina, in cambio di una sorta di mano libera negli affari.

E come era stato possibile, visto che nella ‘ndrangheta senza famiglia e senza territorio si nuddu ‘mbiscatu cu nenti? Evidentemente il territorio dei Lo Giudice era la terra di nessuno, la loro libertà di muoversi nelle pieghe di tutte le doppiezze delle istituzioni e della politica, delle forze dell’ordine e dei Servizi segreti, fino ai magistrati. Un territorio “metafisico” che loro mettevano al servizio di chi gli aveva concesso questo privilegio.

Per questo non era possibile che sbattevano dentro Luciano per intestazione fittizia di beni, ‘na fissaria per la quale a Reggio un cristiano, con magistrati onesti e avvocati giusti, in galera non ci sarebbe mai andato. E chi era diventato Luciano, Al Capone, che in America per prenderlo, con tutti i morti e le stragi che aveva fatto, l’avevano dovuto accusare di evasione fiscale? Qualcosa non tornava. E poi, con tutti gli amici che si era fatto, possibile che nessuno si ricordava più di lui? E l’avvocato Gatto e l’avvocato Pellicanò, niente facevano? E vabbè che oltre ai palermitani a fare le indagini avevano messo un’altra straniera di Bologna, Beatrice Ronchi, ma è mai possibile che i reggini non cuntamu cchiù nenti?

Il boss si rode, ne parla con gli avvocati, si arrabbia con la moglie. Non prende pace e soprattutto non capisce, lui che li aveva sempre rispettati, perché certi amici non fanno niente e non si fanno sentire. L’amicizia è amicizia, e un amico non lo lasci a piedi nel momento del bisogno, figuriamoci se lo puoi abbandonare in galera.

L’angoscia di Luciano e la sua rabbia si riversano su Nino, il fratello maggiore. E da qui si dipana tutta la storia. L’8 ottobre 2010, tre giorni dopo il ritrovamento del bazooka destinato a Pignatone, Antonino Lo Giudice, Nino il nano, il fratello grande e capo del clan, viene arrestato. Guarda caso, dieci giorni prima aveva cominciato a collaborare con i magistrati un cugino del boss e uomo “operativo” all’interno del clan, Consolato Villani, arrestato poco tempo prima. Evidentemente Nino lo aveva saputo e aveva manifestato il suo “avviso” a Pignatone e ai magistrati che lavorano con lui.

Consolato è un fiume in piena. A lui l’hanno fatto uomo d’onore da ragazzo e ha scalato tutti i gradi della ‘ndrina. “… Nel ’96-97 sono stato affiliato… nel 2010-2011 ho avuto la Santa… e poi sono arrivato… mi hanno dato il grado di Vangelo nel 2005…”. Nella cosca Villani è uno che conta, porta ed esegue ordini, partecipa al gruppo di fuoco, è sempre operativo e, soprattutto, è uno degli uomini più vicini a Nino e Luciano.

Dei rapporti e degli affari del clan sa quasi tutto, e indica al magistrato la pista vera delle bombe. Fa i nomi dei componenti del commando che con lui hanno fatto gli attentati e quello di uno che sta in alto, uno che, quando serve, li aiuterebbe ad avere informazioni e a muoversi anche nelle aule del Tribunale di Reggio.

Quando Nino Lo Giudice ormai in carcere capisce che il gioco è scoperto e per lui c’è poco da fare, comincia a collaborare. Lo fa anche perché sa che Villani ha detto che a un certo punto lui, il Nano, voleva farsi fuori e “consegnare ai sbirri” addirittura il Supremo. E ti pare che Pasquale Condello non l’avrebbe saputo? Ormai Nino era bruciato, come uomo e come boss.

Infame per infame, era meglio collaborare e dire tutto: la bomba alla Procura generale, quella a casa del Procuratore Di Landro e il bazooka per Pignatone sono opera sua. Non poteva sopportare che suo fratello stesse buttato in galera per niente, che gli avvocati non potessero intervenire e quelli che secondo lui avrebbero potuto farlo neanche gli rispondevano al telefono. Prima a Reggio non funzionava così e loro, con i soldi che avevano dato e i favori che avevano fatto, erano rispettati.

Fa anche i nomi degli insospettabili. Uno lo ha fatto anche Villani: Saverio Spadaro Tracuzzi, un capitano dei carabinieri che era stato capo della squadra catturandi del Ros di Reggio e poi era passato alla Direzione Investigativa Antimafia. Questo capitano con Luciano era davvero amico. Come si dice qui, si spartivano ‘u sonnu, e pure la Ferrari, che l’imprenditore gli lasciava col pieno ogni volta che il “benemerito” gliela chiedeva. E Tracuzzi, che quando non stava alla Dia era sempre buttato nella cornetteria di Luciano, in cambio cosa gli dava?

“Saverio gli dava le informazioni che voleva Luciano” è la risposta secca di Consolato Villani ai magistrati. “Vi posso dire una cosa”, continua, “Luciano Lo Giudice sapeva sempre prima quando c’erano arresti a Reggio Calabria, però non ha saputo il suo. Ce lo diceva sempre… tra pochi giorni ci sarà un’operazione ed era vero… Questo Saverio lo diceva a Luciano e Luciano lo diceva a Nino… vedi che per fine settimana fanno un’operazione… anche operazioni della polizia, non solo della Dia, anche i Ros, sì, anche i Ros”. Un copione già visto: talpe, sempre talpe. A Reggio sono loro il sistema, ramificato in tutti i palazzi dello Stato, talpe e purcariusi.