Mafia-stato e Calabria. La “selezione” dei Piromalli, la geografia dei clan e il primo pentito

Pino Scriva

Stiamo pubblicando ormai da diversi giorni alcuni stralci del libro-inchiesta di Francesco Forgione “Porto Franco: politici, manager e spioni nella Repubblica della ‘ndrangheta”. Dopo avere esaminato a fondo i rapporti tra il clan Piromalli e Marcello Dell’Utri per conto di Silvio Berlusconi, l’autore ci spiega la trasformazione della ‘ndrangheta e i suoi mille tentacoli che coinvolgono anche la magistratura e tutto il sistema che gira intorno alla Giustizia a Reggio Calabria. Roba che scotta e che si aggancia in maniera disarmante al caos delle toghe sporche di oggi. 

“Io vengo dal regno dei morti”. Con queste parole Pino Scriva si era presentato ai magistrati quando aveva deciso di parlare e farsi pentito. Ed era vero. Lui a Rosarno un regno se l’era creato, era un killer e un capomafia riconosciuto e temuto. Almeno fino a quando i Pesce, la cosca emergente, non avevano deciso che era arrivato il loro tempo. I nuovi capi dovevano essere loro. Glielo avevano detto pure quelli che capi erano già e di tutti, i Piromalli.

I Pesce, mezza parola, e avevano capito come muoversi e cosa fare. Ne aveva parlato persino un altro pentito, Salvatore Marasco, e aveva spiegato che “il clan Pesce era affiliato al clan Piromalli”. Aveva pure chiarito il rapporto che esisteva tra i due casati mafiosi dei paesi confinanti, perché qui non siamo in Sicilia e le regole, quelle che valgono come legge, sono un’altra cosa: “… Intendo dire che i capi, Giuseppe e Antonino Pesce, prendono decisioni autonome: per esempio Piromalli non viene avvertito quando devono fare una rapina oppure estorsioni o un delitto. Tuttavia se i Pesce ritengono che nella loro attività possono toccare gli interessi dei Piromalli quantomeno li avvertono o, se si tratta di episodi più gravi, che possono riguardare attività che ricadono nel territorio di Gioia Tauro o persone che possono avere rapporti con i Piromalli, gli chiedono sempre il permesso…”.

Insomma, già allora, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, quando ancora non esisteva quella che i magistrati ai tempi dell’estorsione alla Medcenter hanno chiamato la “supercosca della Piana”, i Pesce erano alleati leali e fedeli. Poi, con il porto da costruire e i grandi affari che sarebbero arrivati, avrebbero avuto il futuro davanti e di tutto qusto sarebbero stati ripagati, fino a diventare, come è successo, una delle famiglie più forti e potenti della Calabria.

Pino Scriva e il suo clan, invece, rappresentavano il passato e quel passato andava chiuso in fretta. Certo, non è che nella ‘ndrangheta ci si siede attorno a un tavolo e tra un bicchiere di vino, un piatto di capra e una tarantella, si chiede a un boss di passare la mano. Le cose vere, quelle che cambiano gli equilibri e le geometrie mafiose, si decidono a colpi di piombo e di lupara. E così avevano fatto i Pesce.

Per questo Scriva veniva dal mondo di morti: gli avevano ucciso quasi tutti i membri del clan che gli erano rimasti fedeli o ancora non si erano sbrigati a passare con i vincenti. La sua storia di boss, lo sapeva, era finita. Camminava tra le ombre. Se no perché doveva farsi pentito proprio lui, che la puzza dei sbirri la sentiva a chilometri di distanza? Se si voleva salvare e colpire ‘ddi cornuti senza onuri che gli avevano rovinato la vita, non aveva altra via, doveva parlare. E lui, uno dei primi, aveva parlato ed era stato un fiume in piena, anche se dopo, per vendetta, gli avevano distrutto il resto della famiglia e a Rosarno, diventato infame, non ci aveva più messo piede.

La storia della Piana è anche questa: una storia infinita di stragi e faide, una scia di morte e di sangue lunga decenni. Seminara, Cittanova, Taurianova, Rizziconi, ogni faida è “faida di”, porta il nome di un paese. Le famiglie in lotta vengono dopo, perché nella ‘ndrangheta ci si ammazza per il controllo del territorio prima che per l’onore. E’ la regola di sempre. Guai a pensare che quelli che ora vanno in giro belli stirati, fanno gli imprenditori giù al porto, i manager a livello internazionale e giocano in borsa, hanno dimenticato da dove vengono, come si sono fatti e chi continuano ad essere. La loro linfa e il rispetto che continua a portargli la gente ha radici antiche, arriva da un passato di cui non ci si libera mai, fatto di lutti e paura.

Lo sapevano bene anche i Piromalli. Avevano imposto la pace a tutte le ‘ndrine, perché con i miliardi che stavano arrivando, sarebbe stato meglio per tutti. E poi perché non si può lavorare tranquilli con i poliziotti e i carabinieri che girano strade strade, entrano nei bar, arrivano nei cantieri, perquisiscono le officine e bussano alle case dei cristiani pure di notte. Succedeva dopo ogni ammazzata e a quel tempo era cosa di tutti i giorni. Per questo era meglio stare in pace, anche se, per arrivarci, loro si erano alleati con le cosche che nella guerra della Piana, paese per paese, sarebbero risultate vincenti. Anzi, vincevano anche grazie al loro appoggio che in quel periodo, sotto l’autorità di don Mommo e il polso fermo di don Peppino, erano non solo i più rispettati, ma anche quelli più armati.

Quando serviva mettevano a disposizione anche i loro killer e li mandavano in trasferta, così chi doveva sapere sapeva chi erano i loro alleati e con chi sarebbe stato meglio schierarsi per vincere: i Mammoliti a Castellace, i Crea a Rizziconi, gli Avignone a Taurianova, i Pesce e i Bellocco a Rosarno, i Mancuso a Limbadi, i Gioffré di Seminara, i Longo di Polistena, gli Alvaro a Sinopoli. Gli stessi che avevano preso i subappalti per l’area industriale e il porto.