Mafia-stato e Calabria. L’anticamera di Berlusconi: i Piromalli da Marcello Dell’Utri

Continuiamo a pubblicare gli stralci del libro-inchiesta sulla ‘ndrangheta “Porto Franco: politici, manager e spioni nella Repubblica della ‘ndrangheta” di Francesco Forgione. Dall’omicidio di Salvatore Pellegrino, detto uomo mitra, gli inquirenti hanno scoperto attraverso le intercettazioni cose incredibili sulla famiglia Piromalli. Nel 1975 l’allora ministro del Bilancio Giulio Andreotti è presente a Gioia Tauro per la posa della prima pietra del V Centro Siderurgico che non vedrà mai la luce ma soprattutto per dare un “riconoscimento ufficiale” ai Piromalli e insieme a lui c’è un personaggio incredibile, Aldo Miccichè, scomparso pochi anni fa, il cui percorso è a dir poco rocambolesco e porta direttamente alla politica e al rapporto perverso mafia-stato. A Miccichè è stata commissionata una missione quasi impossibile dalla famiglia Piromalli della quale è diretta espressione: far togliere il carcere duro a don Peppino. Dopo il fallimento dei contatti con il ministro Mastella, incasinato per i problemi giudiziari suoi e della sua famiglia, Miccichè parte alla carica con quelli dell’Udc. Gentaglia al soldo del potere… Ma è chiaro che bisogna bussare alla porta di Berlusconi e dei suoi scagnozzi. E non solo per il 41 bis… 

L’ANTICAMERA DI BERLUSCONI 

La sera dell’1 dicembre del 2007, Gioacchino Arcidiaco è a Bergamo, da sua zia. Quando va a Milano sta sempre dagli zii. O dai suoi cugini, i Piromalli, che nella capitale del Nord ci vivono da sempre. Il ragazzo è ammalato, abbastanza grave. Lui lo sa. I medici gli hanno detto tutto. La mattina dopo deve andare in ospedale, a Milano. Ci deve ritornare anche il pomeriggio. Deve fare una Tac. Ma a mezzogiorno ha appuntamento con il senatore. Con loro c’è anche un altro amico, Francesco Lima. E’ un importante avvocato di Bari che vive e ha lo studio a Genova. Nelle sue mani i Piromalli hanno messo più di un affare e di un traffico, di quelli milionari.

Il ragazzo calcola le ore di fuso e telefona in Venezuela. Ha bisogno di ricevere le ultime istruzioni. Deve mettere a fuoco punti e virgole del discorso che dovrà fare. La famiglia parla solo per bocca sua. Zio Aldo (Miccichè) è chiaro: “Guarda che sono stato io a chiedere l’incontro, quando ho capito la forza politica che si sta volgendo in questo senso… perché parliamoci chiaro, parlare con Marcello Dell’Utri significa l’anticamera di Berlusconi, forza! Lui vorrà che si facciano i Centri della libertà… e tu gli dici che noi siamo a disposizione… tu gli dici che a Gioia Tauro… Rosarno… Palmi, anche sulla ionica e via di seguito… dove non arrivate voi facciamo strada noi”.

Al ragazzo sono arrivate anche indicazioni da Facciazza, lo zio che sta in carcere a Tolmezzo. E lui rilancia: “No, io gli dico pure… ho avuto autorizzazione di dire che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia”. La frase può sembrare strana. Una “vanteria” del giovane. O di questi boss calabresi che ormai si sentono i padroni e i più forti di tutti, pure dei siciliani. In realtà non lo è. Alla faccia del regime speciale del 41 bis, Pino Piromalli ha avuto modo di comunicare con un altro boss, Antonino Cinà, medico e uomo d’onore della famiglia palermitana di San Lorenzo. E’ uno dei boss più fedeli a Totò Riina e ai corleonesi. Lo avevano arrestato subito dopo la cattura di Bernardo Provenzano nella primavera del 2006 quando, assieme a capimafia del calibro di Nino Rotolo e Salvatore Lo Piccolo, faceva parte del gotha di Cosa Nostra.

Quello di Cinà è un nome che Marcello Dell’Utri conosce bene. Compare molte volte nel suo processo. Ma quel nome il ragazzo al senatore non lo farà mai. La frase studiata dice tutto. Chi conosce i linguaggi della mafia sa che i Piromalli non hanno mai detto una parola storta, o una di troppo. E non hanno bisogno di dimostrare a nessuno più forza di quella che hanno. A quel livello si parla giusto. E’ chiaro che il messaggio esce dal carcere, da dove Facciazza continua a comandare. Aldo, da Caracas, capisce subito il peso di quelle parole e mette in guardia il ragazzo: “… questi discorsi falli a quattr’occhi, naturalmente…”.

La famiglia ha una richiesta da avanzare al senatore. Chiede il parere saggio di Aldo: “… Noi abbiamo una sola richiesta, che non è finanziaria, né di mio zio, né di altri… è che almeno a mio cugino gli venga riconosciuta una qualche forma di immunità… Guarda Aldo, che gli venga dato un consolato dello Stato Russo, vietnamita, arabo, brasiliano, non mi interessa…”.

La richiesta è per Antonio Piromalli, il figlio del boss. Diventare console onorario e avere un passaporto diplomatico è come avere un salvacondotto permanente. Con quello in mano non è che gli sbirri ti possono fermare quando vogliono. E se serve andare all’estero d’urgenza, appena ti avvisano che stanno venendo ad arrestarti, è quello che ci vuole. Con l’aria che tira, Antonio ne ha bisogno. Da quando il padre è in carcere, la cosca la guida lui. Non da solo, ovviamente. I fratelli, le sorelle, i cugini sono tanti. Tutti impegnati, chi con attività criminali e chi in forma “legale”, a tessere rapporti, mantenere contatti e a tirare avanti gli affari della famiglia.

Antonio è il comandante in campo. 41 bis o non 41 bis, è lui che dal carcere porta le notizie e riceve gli ordini dal padre. E’ anche il capo militare. Un potere che gli riconoscono tutti, dentro e fuori il clan. Ecco perché la famiglia vuole metterlo in “sicurezza” se i processi in corso dovessero andare male e gli sbirri decidessero di prenderlo.

Zio Aldo, politico navigato, sa che non può deludere le aspettative, ma raffredda le attese: “… Questo lo possiamo fare, ma tieni presente che in questo momento anche Marcello è in un mare di guai… nonostante i mezzi di intervento che ha avuto… se no questo problema lo avrei già risolto da un sacco di tempo, mi sono spiegato?”.

In effetti, Marcello Dell’Utri a Palermo è alle prese con il processo d’appello che sta per confermargli la condanna di primo grado. Anche se alla fine gli ridurrà la pena da 9 a 7 anni e mezzo di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Le cose per lui si stanno mettendo male. Nuovi pentiti, infatti, continuano a tirarlo in ballo. Pure per le stragi di Falcone e Borselino parlano di lui! Tutte cose che a Caracas, zio Aldo segue quotidianamente.

In realtà, a quell’incontro la famiglia ci lavora da tempo. Se ne era occupato direttamente anche Antonio. Ora è costretto ad essere guardingo. Lo segue a distanza. Qualche giorno prima dell’appuntamento, parlando di un “pranzo” da tenere a Milano il 2 dicembre, chiede al cugino se è tutto a posto e chi sarà seduto a tavola con lui. Gioacchino risponde con una domanda: “Chi c’è dopo i papi?“. E Antonio: “… i cardinali!“. Gioacchino conferma: “… proprio lui, il cardinale!“. Il figlio del boss, col linguaggio del giocatore di scopa, chiude soddisfatto: “… con lui abbiamo fatto primera!“.

La mattina del 2 dicembre 2007, Gioacchino è in Piazza San Babila. E’ affaticato per l’esame fatto in ospedale, ma vuole essere puntuale con il senatore. Si incontra con l’avvocato Lima e assieme si dirigono in via Senato, alla segreteria di Dell’Utri. L’incontro non è lungo. Giusto il tempo per intendersi. Ed è l’inizio di un rapporto che avrà più di un risvolto e non solo politico. Saranno tanti anche i protagonisti. Tutti inimmaginabili. Se le “cimici” e le cuffie della polizia non li avessero svelati.