Mafia-stato e Calabria. Quando il clan Piromalli bussò da Dell’Utri: il ruolo di “zio Aldo”

Continuiamo a pubblicare gli stralci del libro-inchiesta sulla ‘ndrangheta “Porto Franco: politici, manager e spioni nella Repubblica della ‘ndrangheta” di Francesco Forgione. Dall’omicidio di Salvatore Pellegrino, detto uomo mitra, gli inquirenti hanno scoperto attraverso le intercettazioni cose incredibili sulla famiglia Piromalli… Nel 1975 l’allora ministro del Bilancio Giulio Andreotti è presente a Gioia Tauro per la posa della prima pietra del V Centro Siderurgico che non vedrà mai la luce ma soprattutto per dare un “riconoscimento ufficiale” ai Piromalli e insieme a lui c’è un personaggio incredibile, Aldo Miccichè, scomparso poco più di due anni fa, il cui percorso è a dir poco rocambolesco e porta direttamente alla politica e al rapporto perverso mafia-stato.

Quella di Miccichè è davvero una vita rocambolesca. Comincia a Maropati, un paesino di circa 1600 abitanti sperduto nella Piana di Gioia Tauro, dove nasce nel 1956, e resta visibile fino all’1 dicembre del 1990. Quel giorno, dopo due anni di latitanza, un ufficiale dei carabinieri travestito da cameriere gli serra le manette ai polsi nella hall dell’hotel Genova, a due passi dalla stazione Porta Nuova di Torino. Era arrivato la sera prima in treno dalla Francia, inseguito da un mandato di cattura emesso già da due anni nell’ambito dell’inchiesta sulla truffa alla banca svizzera.

Dopo l’arresto scompare e non fa parlare più di se. A dire il vero, nonostante le condanne che si susseguono, nessuno lo cerca. Ma in Italia, lo sappiamo, spesso funziona così. A dicembre del 2007, dopo vent’anni, quando le “cimici” della polizia lo ascoltano, racconta al telefono le sue schermaglie con la giustizia italiana. Parla di uno dei tanti scandali che lo avevano visto protagonista nel 1986: un giro di assegni per un miliardo e mezzo di vecchie lire che avevano coinvolto lo Ior del Vaticano, la Banca Nazionale del Lavoro e il Monte dei Paschi di Siena: “… L’allora sostituto procuratore della Repubblica mio amico per la pelle mi disse: “Aldo, perché non ti fai un viaggetto… che sta venendo la legge per cui questo reato viene prescritto?… e io presi l’aereo e me ne andai nella villa del mio compare Frank Sinatra, ad Acapulco… Lì mi dovevano arrivare i soldi nostri, cioè di Craxi, Bisaglia, Petrucci, Gullotti, Gava etc… Invece avvenne il famoso dramma, diciamo pre Mani Limpias (Mani Pulite, nda)… e quel miliardo e mezzo che mi doveva arrivare fu bloccato… i soldi che noi avevamo dove erano? Erano in Bot alla Bnl, chiaro o no? Lì c’era presidente l’amico di Craxi, Nesi… che a quello l’hanno salvato… Poi sono stato a Miami, a New York, nel Massachussetts, in Brasile… mi sono fatto tutta l’America Latina e così ho dato il via a determinate situazioni di qua…“.

Anche la sua versione dell’arresto di Torino descrive un film diverso da quello raccontato nelle cronache dei giornali dell’epoca. Al telefono, secondo il resoconto dei poliziotti, ne parla sorridendo: “… Quando sono arrivato a Torino mi hanno detto che… (ride)… stavo male… mi hanno pagato l’albergo… mi hanno detto che stavo male… e io sono stato male… sono stato in ospedale dai miei cugini lì a Torino… mi hanno rimesso in prima classe sull’aereo e mi hanno mandato via…

“E che cazzo, vent’anni così, perché non mi arrestano? Sono qual (in Venezuela, nda)… è tanto facile… avete il mandato di cattura? Qua sono! Pigliatemi. E invece non l’hanno fatto. Chi lo sa perché… Loro sanno che se mi decido e dico tutto posso fare un best seller“.

Vai a sapere se al telefono Miccichè millanti o dica la verità. Ma senza una rete di coperture politiche e istituzionali, non si scompare nel nulla. Da allora – e questo è certo – nessuno si è più occipato di lui. Nessuno l’ha cercato. E’ diventato un fantasma.

Antonio Piromalli

Per ritrovarne le tracce dobbiamo aspettare l’autunno del 2007, quando nelle cuffie della sala ascolto del commissariato di polizia di Gioia Tauro che registrano le telefonate di Antonio Piromalli, il figlio del boss Facciazza, finalmente irrompe la sua voce: “Ciao figghiuzzu, zio Aldo sono!”.

Miccichè, dopo aver girato Nord e Sud America, da quasi vent’anni vive a Caracas. In Italia dovrebbe scontare circa 25 anni di galera. Tanti ne ha cumulati tra una sentenza e l’altra. Nel Paese caraibico è un cittadino libero e facoltoso. Fa una bella vita. Il clima è buono, gli amici non mancano. E nemmeno gli amici degli amici. Molti sono siciliani e calabresi e sono lì da decenni. Anche la comunità italiana lo ha accolto a braccia aperte. Come ha fatto con tutti gli altri. Quello che uno era e faceva prima di arrivare ai tropici a loro non interessa. Sulla fedina penale nessuna domanda. E’ cosa di sbirri. 

Lui a Caracas ci arriva con la fama di imprenditore, per giunta addentrato nelle cose della politica. Il che è un buon viatico e quando serve può essere d’aiuto per tutti. Soprattutto per gli amici della Piana, con cui è legato da un cordone ombelicale che non ha mai rotto. Glielo ricorda ad Antonio Piromalli riferendosi a don Mommo, il “Patriarca” della famiglia: “… Non ti dimenticare mai chi era Mommo per me”.

E poi, col mondo nuovo, internet e la globalizzazione, il Venezuela è a due passi: con telefoni, mail, skype, bonifici e movimenti bancari telematici, ci si può sentire ad ogni ora, giorno e notte, e si può fare tutto quello che serve. Più facile che andare da Gioia Tauro a Reggio incolonnati per ore e ore sull’autostrada, a fare zig zag a passo d’uomo tra cantieri e lavori che non finiscono mai. Una storia che dura da quarant’anni.

Comunque, la morale è che zio Aldo non se n’è mai andato. Sono quelli della polizia che, partiti dalle indagini sull’omicidio dell’uomo mitra, se lo ritrovano redivivo, e con lui un puzzle di nomi che non potevano immaginare.

ZIO ALDO E LA FAMIGLIA

Per i Piromalli Aldo Miccichè è più di un amico. Sono la stessa cosa, lui e la famiglia. Per questo lo chiamano Zio: ne cura gli interessi in tutto il Sud America e tiene i rapporti con gli Stati Uniti. Ma è anche il consigliere. L’uomo delle pubbliche relazioni e dei rapporti con i palazzi del potere che contano a Roma come a Milano. Tutto via Caracas, Venezuela. Tocca a lui, dall’altra sponda dell’Atlantico, il compito di istruire e preparare Gioacchino, il nipote del boss, all’incontro con Marcello Dell’Utri.

Il vecchio politico e il senatore si conoscono, sono amici. Fanno pure affari in Comune. Il senatore sa bene a nome di chi parla l’amico venezuelano e per conto di chi è stato fissato l’appuntamento. Per Aldo, amicizia a parte, in un’occasione che può cambiare il futuro della famiglia, è sempre bene mettere i puntini sulle “i”. Meglio ricordare la propria storia. Tanto per far capire la forza che si ha alle spalle: “… Spiegacci chi siamo e che cosa rappresentiamo per la Calabria… Insomma, fagli capire che la Piana è cosa nostra, che il porto di Gioia Tauro ‘u ficimu nui, hai capito?… Facci capire che in Aspromonte e tutto quello che è successo là sopra è successo tramite noi, hai capito? … Ora fagli capire che in Calabria, o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro, ha bisogno di noi… Hai capito il discorso? … e quando dico noi… mi sono spiegato?“.

In questa storia non ci sono pentiti. Quelli che sono buoni quando servono a colpire le loro organizzazioni criminali, a fare luce su stragi e omicidi, ma che ogni volta che tirano in ballo il nome di uno che conta – politico, magistrato o imprenditore – cominciano a puzzare e si scatena l’iradiddio. No, questa storia è fatta senza i racconti di quei criminali. Che poi dicono di non esserlo più, e i giudici devono pure capire se dicono cose vere o fanno “tragedie”. In questa storia ci sono i numeri di telefono, le chiamate, le voci dei protagonisti. Per questo i primi e i più increduli sono stati loro, i poliziotti chiusi pr ore e ore, notte e giorno, nella sala ascolto del Commissariato di Gioia Tauro e alla Squadra Mobile di Reggio Calabria.

Ora, il problema cje angustia la famiglia in Calabria e zio Aldo a Caracas, è il carcere duro. Per Pinuzzu è duro assai. L’estate in galera non passa mai. Il caldo è insopportabile. Il pensiero fisso è a quelli che stanno fuori. E pure al vuoto lasciato nella famiglia. L’attesa per la ripresa dei processi in autunno crea angoscia.

Il carcere di Tolmezzo è una tortura pure per chi sta fuori. Moglie, figli, parenti per un’ora di incontro devono farsi un giorno e mezzo di treno. O prendere l’aereo, con quello che costa. Bastardi di sbirri. Non gli bastava il 41 bis, l’isolamento, la posta censurata, le telecamere accese giorno e notte. E solo due ore d’aria in comune, che uno è costretto a parlare da solo, come ‘nu scimunitu, per sentire che è ancora vivo. C’è da impazzire. Anche per un uomo vero. Uno di quelli che con la morte a fianco e il carcere davanti ci è cresciuto da piccolo. Da quando l’hanno fatto uomo d’onore. Ma ‘sto 41 bis non è carcere. E’ un’altra cosa. L’avevano capito i siciliani, quando si erano incazzati e, tra il 1992 e il 1993, si erano mesi a fare stragi a Palermo e in mezza Italia. Quale carcere e carcere. Ti vogliono cancellare e mettere la famiglia in ginocchio. Perché, galera o non galera, della guida e della saggezza del capo la famiglia non può fare a meno.

Dalla morte di Don Peppino Piromalli, mussu stortu, il 19 febbraio del 2005, Pino facciazza, suo nipote, è diventato il capo. A dire il vero il clan era già passato alla sua reggenza da quasi vent’anni. Da quando lo zio, il “capo dei capi” della ‘ndrangheta della Piana e della Calabria, era stato arrestato. La famiglia è grande. C’è chi fa l’imprenditore, chi si occupa del porto, chi delle cooperative, chi delle società. E chi dirige l’esercito armato. C’è anche chi fa l’avvocato, che del mestiere ce n’è bisogno. E chi si defila e fa il medico in un importante ospedale di Milano.

I Piromalli sono così. hanno sempre guardato avanti. Non come quel rozzo di Totò Riina che al figlio Giovanni, appena diciottenne, gli fece strangolare una coppietta di fidanzatini sotto gli occhi compiaciuti di suo zio, Leoluca Bagarella. Ora, a nemmeno trent’anni, si ritrova con gli ergastoli come il padre.

Loro, invece, i boss della Piana, sanno che se vuoi guardare al futuro devi studiare, entrare in società, frequentare i salotti che contano. A Reggio come a Milano, a Caracas come a New York. L’importante è non perdere il controllo del territorio. Che poi, o per paura o per amicizia, vuol dire ricevere il rispetto della gente. Per questo serve la guida.

Purtroppo, anche a Facciazza, è toccato il destino degli zii, i vecchi capi. Perché lo Stato, con tutti gli annacamenti, in questi anni i colpi li ha dati. Ora è per lui che la cosca sta facendo il finimondo. Il 41 bis non lo sopporta più. Si deve fare di tutto per arrivare alla politica, perché la decisione finale sul carcere duro è del ministro della Giustizia.

Tocca ad Aldo Miccichè cercare le pedine nei palazzi che contano. E Aldo, prima di arrivare a Marcello Dell’Utri, le prova tutte. Il 41 bis di Pino Piromalli scade a dicembre del 2007. La famiglia si deve sbrigare. Hanno poco tempo per trovare la strada giusta. Poi, la commissione e il ministro firmeranno la proroga.