Mafia-stato e Calabria. Riciclaggio, socialisti e massoneria: il commercialista dei Piromalli

Stiamo pubblicando ormai da tempo alcuni stralci del libro-inchiesta di Francesco Forgione “Porto Franco: politici, manager e spioni nella Repubblica della ‘ndrangheta”. Dopo avere esaminato a fondo i rapporti tra il clan Piromalli e Marcello Dell’Utri per conto di Silvio Berlusconi, l’autore ci spiega la trasformazione della ‘ndrangheta e i suoi mille tentacoli che coinvolgono anche la magistratura e tutto il sistema che gira intorno alla Giustizia a Reggio Calabria. Roba che scotta e che si aggancia in maniera disarmante al caos delle toghe sporche di oggi. Compresi i traffici del Cavaliere e delle sue tv (non ultima la Rai…) con la massoneria e con il vecchio Psi e con la Calabria sempre protagonista.

Ma da dove era partito Pietro Pilello, il primo vero “commercialista” del clan Piromalli (https://www.iacchite.blog/mafia-stato-e-calabria-berlusconi-sacca-e-i-gran-maestri-della-finanza/) per approdare alle stanze del potere politico e finanziario milanese?

Il viaggio a ritroso ci riporta ancora una volta nella Piana di Gioia Tauro e agli anni della sua tumultuosa trasformazione. Lo racconta a modo suo lo stesso Pilello, che tra un consiglio d’amministrazione e un altro ha trovato pure il tempo di fare lo scrittore. Dopo gli arresti dell’operazione “Crimine” e “Infinito” a Milano ha scritto un libro autobiografico, “L’imboscata”, che si può leggere solo su internet.

Negli anni Ottanta, il professionista ha lo studio a Gioia Tauro ed era il commercialista dei Piromalli che, impegnati com’erano a far nascere attività commerciali e imprenditoriali come funghi, non potevano occuparsi pure della contabilità. La passione per la politica ce l’ha nel sangue e viene eletto segretario di una delle due sezioni del Psi di Palmi. Prima era vicino a Giacomo Mancini, il leader padrone del Partito socialista calabrese che nella Piana aveva nutriti rapporti. Poi, quando Mancini si unisce alla lotta contro la centrale a carbone, cambia corrente e si schiera con quelli della “sinistra” socialista che il carbone invece lo volevano. A Roma i suoi capi corrente erano uomini come Claudio Signorile e Fabrizio Cicchitto, e in Calabria faceva riferimento ai parlamentari Saverio Zavettieri e Sisinio Zito, che nel corso degli anni si ritroveranno coinvolti in inchieste giudiziarie di mafia e massoneria. La stessa pasta politica di Pilello che, oltre a essere socialista, è anche il Maestro Venerabile della Loggia del Grande Oriente d’Italia di Palmi, la loggia della Piana alla quale sono affiliati anche uomini delle ‘ndrine che ormai si erano mischiati coi massoni.

Mischiati erano don Mommo e don Peppino Piromalli, e mischiato era don Peppino Pesce, il patriarca di Rosarno, il grande alleato, che da sempre stava con i socialisti e infatti a fargli visita a casa ci andavano tutti, consiglieri regionali, sottosegretari e deputati del Psi. E siccome di politici fidati c’è sempre bisogno, Peppino Pesce, in quegli anni, faceva pure eleggere a furor di popolo suo nipote, Gaetano Rao, sindaco di Rosarno. Sempre col garofano. E quando non lo faceva sindaco, lo faceva nominare presidente della Usl di Gioia Tauro. D’accordo con don Peppino naturalmente, perché, anche se i Piromalli erano democristiani, su Tano erano sempre d’accordo.

Uno dirà: cose passate? Ma quando mai! Qui il passato è un eterno ritorno. Dal 2011 Gaetano Rao è assessore alla Provincia di Reggio, uomo di fiducia del Presidente Raffa (proprio lui, l’impresentabile “ufficiale” della Commissione antimafia alle ultime Regionali, ndr). Ed è giusto, perché nel Pdl i socialisti ci sono sempre stati e non devono essere discriminati solo perché sono nipoti di boss.

E’ la stessa traiettoria politica di Pilello. Il commercialista fuori dalla Piana non lo sonosceva nessuno, almeno fino ai primi mesi del 1992. In quel periodo, proprio da un’indagine sui traffici della cosca Pesce di Rosarno, i magistrati di Palmi arrivano alla massoneria e al capo della P2 Licio Gelli e cominciano a occuparsi pure di Pietro, il Venerabile della Piana. Nello stesso periodo, il 12 settembre, nel corso di un’indagine partita da Roma, si scopre che due autentici sconosciuti, Cecilia Morena e Giuseppe Cutrupi, avevano depositato 45 certificati di deposito del valore di 95 milioni l’uno, pari a 4 miliardi 275 milioni di lire, nella Banca Popolare Cooperativa di Palmi. Provengono tutti dal bottino di una rapina fatta due anni prima a Roma ai danni di un portavalori del Banco di Santo Spirito della Capitale. Chissà come avevano fatto ad arrivare a Palmi. A far piazzare i titoli nella piccola banca della Piana era stato Pietro Pilello. I magistrati sequestrano il conto corrente, ma dopo quindici giorni trovano e sequestrano altri 31 miliardi degli stessi certificati nella Cassa di Risparmio di Firenze. Secondo i magistrati di Roma che indagano sul furto dei certificati e quelli di Palmi che indagano sulla massoneria, dietro l’operazione c’è sempre Pilello, questa volta in compagnia di un imprenditore marchigiano, Arturo Maresca e di un ex direttore generale del ministero delle Finanze, Angelo Iaselli, iscritto alla P2 di Gelli. Tutto fatto a fin di bene, naturalmente: i soldi sarebbero serviti per aiutare alcuni imprenditori a rimettere in sesto le loro aziende in crisi e a non licenziare gli operai.

I giudici invece pensano a grandi operazioni di riciclaggio e a una truffa internazionale: per esempio la banca fiorentina, a fronte di 31 miliardi garantiti dai certificati di deposito, ne stava versando 25 in contanti. E così avrebbero fatto in tutte le altre banche. Il commercialista della Piana dirà di aver semplicemente prestato la sua opera professionale senza conoscere la provenienza dei soldi, tanto pecunia non olet. Ma non convince i magistrati del Tribunale di Roma che gli ritirano il passaporto temendone la fuga.

Qualcosa di strano doveva esserci, se da Roma a Firenze a Berlino si erano rivolti a Pietro Pilello, da Palmi, per fare spericolate operazioni finanziarie. In tutti i filoni e da tutte le latitudini dell’inchiesta spunta sempre la massoneria. E si arriva anche in Svizzera. Dopo pochi mesi a Zurigo, viene fermata Winnie Kolbrunner, una borker che è anche consulente del vicesegretario del Partito socialista e ministro della Giustizia Claudio Martelli. Le mettono le manette negli uffici di una banca, mentre tenta di vendere 85 titoli provenienti sempre dal bottino della stessa rapina. La donna nel mondo della finanza è conosciuta perché ha già fatto affari immobiliari con Salvatore Ligresti, Paolo Berlusconi e Gaetano Caltagirone. Ce n’è abbastanza per fare scoppiare uno scandalo che investe direttamente il Psi di Craxi e il governo.

Praticamente da Basilea a Zurigo, da Londra a Berlino, da Firenze a Palmi, un’unica rete “finanziaria” sta piazzando i certificati di deposito per ricavarne soldi liquidi. Con un particolare: il Banco di Santo Spirito di Roma aveva “dimenticato” dei denunciare la rapina nel circuito bancario internazionale e solo dopo due anni aveva segnalato il numero e le caratteristiche dei titoli rubati agli altri istituti bancari. I ladri e i loro consigliori potevano stare tranquilli e commerciare i titoli senza fretta.

Quando alcuni rapinatori dell’assalto al furgone vengono arrestati, tutto diventa più chiaro: i banditi sono tutti legati alla Banda della Magliana. E che da sempre una parte della criminalità romana abbia rapporti con la Piana e con la ‘ndrangheta è cosa nota, almeno dai tempi dei “Boia chi molla” e di quel patto con la massoneria, la finanza nera e l’estremismo fascista che aveva avuto come “ambasciatori” in Calabria il principe Borghese e il marchese mafioso Fefé Zerbi.

La cosa però finisce come tante storie italiane: l’inchiesta sulla massoneria, dopo scontri istituzionali e ispezioni inviate dal ministro della Giustizia, viene spostata da Palmi alla Procura di Roma (dove si mette in moto addirittura Augusta Iannini, la moglie di Bruno Vespa, ndr) e lì fatta morire. Il nome di Pilello, invece, tra archiviazioni e proscioglimenti, scompare dalle cronache giudiziarie e di lui si perdono le tracce. Bisogna aspettare vent’anni per vederlo ricomparire sui giornali per le vicende che legano una parte del potere politico e finanziario milanese ai boss della ‘ndrangheta.

Negli anni del suo inabissamento, il filo nero che ha tenuto unito passato e presente, la Piana e Milano, è stato quella fratellanza massonica della quale è sempre andato fiero. Gli altri, quelli che ora i giornali dicono che hanno colonizzato Milano, sono solo conterranei e conoscenti di vecchia data. Niente di penalmente rilevante. E, in fondo, non c’è niente da spiegare.