Magistrati, massoni e clan Mancuso. La cricca del Gattopardo a Vibo e la famiglia Lento

Anche il Tribunale di Castrovillari ha trovato spazio nella “telenovela” delle chat di Palamara “faccia di tonno”. La presidente del Tribunale di Castrovillari era una magistrata reggina di nome Natina Pratticò, che arrivava al traguardo della nomina non certo perché è bella o magari brava ma solo perché chiedeva sostegno a Palamara. “Ricordati di me…” scriveva Natina il 18 aprile 2018. La Pratticò viene convocata a Roma per interloquire con altri soggetti in seno al Csm e riesce a ottenere la nomina.

Dopo i ringraziamenti di rito, per la Pratticò però spunta qualche “problemino” e così torna a scrivere al “tonno” nei giorni successivi: “Ciao Luca. Solo per informarti che Massimo Lento mi ha fatto ricorso. Non so se è politicamente corretto ma spero di conoscerti abbastanza per pensare di poterti chiedere di “vigilare” su chi scriverà la comparsa di costituzione per il CSM in modo che sia netta la difesa della legittimità della delibera in mio favore. Il collega Lento scrive parecchie “stupidaggini” su presunte omissioni sul suo profilo (tutte o inesistenti come l’omessa valutazione delle sue competenze informatiche, assai, per contro, esaltate, sic!, o irrilevanti, come un errore sulle sue competenze ordinamentali nel complesso nettamente ciononostante inferiori alle mie). Io da parte mia ovviamente mi costituisco esaltando ancora di più la vasta esperienza in ogni settore. Scusami se mi sono permessa, ma mi sembrava giusto informarti. Baci e a presto. Qui (a Castrovillari, ndr) sto già lavorando sodo”. E la risposta di Palamara è come sempre rassocurante: “Carissima Natina stai assolutamente tranquilla tutto sotto controllo normale routine baci a presto”. Ma stavolta neanche il “potentissimo” Palamara è riuscito a neutralizzare il pericolo e così, la scorsa estate, i media di regime hanno diffuso la notizia che Massimo Lento ha vinto il ricorso al Consiglio di Stato e ha fatto le scarpe alla “pupilla” di Palamara. Di più. Si è insediata all’inizio dell’anno…

Ma chi è Massimo Lento? Beh, il dottor Lento non è decisamente uno qualsiasi. Innanzitutto, fa parte di una famiglia cosentina molto influente formata da tre fratelli che sono tutti sistemati in centri importantissimi del potere. Lui, Massimo Lento, non è solo un magistrato rampante della sezione civile del Tribunale di Cosenza (un ricettacolo di corruzione noto ormai anche ai bambini…) ma aderisce ad un altro centro di malaffare conclamato come Magistratura Democratica, una delle correnti più fetide del sistema delle toghe. 

Suo fratello Maurizio invece è un poliziotto, che dopo l’apprendistato cosentino ha fatto carriera diventando capo della squadra mobile a Vibo, nel regno del clan Mancuso e per sua sventura è rimasto impelagato in quella ragnatela, subendo finanche l’onta dell’arresto e di più processi, dai quali è uscito indenne ma con la credibilità irreparabilmente macchiata.

E c’è addirittura un “terzo” Lento, tale Marcello, collaboratore amministrativo all’Asp di Cosenza, il regno della massoneria deviata al servizio della ‘ndrangheta e della malapolitica, sempre pronto a fare da talpa ai peggiori boss della sanità privata. E non solo. Proprio oggi è uscita fuori una storia al limite del paradossale. Cinque dirigenti medici dell’Asp (capeggiati dal famigerato e leggendario Fra’ Remigio Magnelli ovvero il numero uno dei corrotti) denunciano gravi illeciti a carico dell’ex commissario Zuccatelli e di una sua pupilla (https://www.iacchite.blog/cosenza-grosso-guaio-allasp-5-dirigenti-denunciano-la-coppia-di-fatto-zuccatelli-di-vivo-e-accusano-anche-longo-esposto-alle-procure/) e non si fanno nessun problema nell’indicare – nell’esposto inviato in procura all’amico Gattopardo, dei cui legami con la famiglia Lento stiamo per dire… – proprio in Marcello Lento il profilo ideale per mandare via la pupilla di Zuccatelli, che certamente deve tornarsene a casa (ora è parcheggiata da Longo a Catanzaro) ma non per questo deve lasciare il posto al colletto bianco che piace alla massomafia… 

L’accenno alla famiglia Lento ci dà la possibilità di riportare alla luce una vecchia storia, che abbraccia gli anni 2011 e 2012 ed è una fotografia perfetta della Calabria massomafiosa e dello stato deviato. Due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro e un giudice del tribunale di Vibo Valentia vengono accusati dalla procura di Salerno per aver dato informazioni coperte da segreto a un avvocato legato alla cosca dei Mancuso. L’indagine del Ros calabrese ha fatto emergere un centro di potere composto anche da massoni e contiguo alla ‘ndrangheta. Ce la racconta un valido giornalista de Il Fatto Quotidiano, Davide Milosa, e ci ritroverete dentro la feccia della Calabria e di Cosenza in particolare. Non solo i fratelli Lento (il magistrato Massimo e il poliziotto Maurizio) ma anche il Gattopardo Mario Spagnuolo, all’epoca procuratore do Vibo e persino “Robertino” Occhiuto, impegnatissimo a dare una mano a uno dei suoi “pupilli”, il commercialista massone (deviato) Antonino Daffinà.

MAGISTRATI, MASSONI E CLAN MANCUSO: LA CRICCA DEL GATTOPARDO A VIBO E LA FAMIGLIA LENTO

di Davide Milosa

Fonte: Il Fatto Quotidiano – 10 gennaio 2013 – 

Il casolare sta in località agro di Limbadi. Il boss della ‘ndrangheta Pantaleone Mancusoalias don Luni, chiacchiera con Francesco Barbieri, imprenditore calabrese che da anni vive e lavora a Milano. E’ il 7 ottobre 2011. Qualcuno ha appena stappato una bottiglia di Ferrari. L’ambientale del Ros registra rumori e parole. Dice Mancuso: “La puttana della Napoli voleva mandargli l’ispezione, perché mi aveva mandato all’ospedale (…) che potevo fare quello che volevo (…) dopo la Napoli l’ha saputo e ha fatto un’interpellanza parlamentare”. I carabinieri, così, riannodano i fatti di una vicenda che risale al 2005, quando il giudice del tribunale di Vibo Valentia Giancarlo Bianchi dispose il “ricovero provvisorio” di Pantaleone Mancuso, all’epoca rinchiuso nel carcere di Tolmezzo, all’ospedale civile di Vibo. Un provvedimento, annotano i militari, che il magistrato firmò “in assenza delle condizioni previste dalla Legge (…) creando una oggettiva condizione di vantaggio rappresentata dalla conseguente accresciuta possibilità di comunicazione con l’esterno”. Il boss resterà in corsia per 27 giorni, nonostante il termine imposto fosse di una sola settimana. Una bella vacanza interrotta solo grazie a un’interrogazione dell’onorevole Angela Napoli.

MAGISTRATI, MAFIOSI E MASSONI
L’episodio non resta isolato. Dal maggio 2011, infatti, il Ros di Catanzaro indaga su “una consolidata rete di relazioni, in parte palese e in parte occulta, cui partecipano stabilmente magistrati del distretto di Catanzaro e due funzionari di polizia”. Un intreccio di relazioni, che dimostra “la sistematica contiguità (…) con la cosca Mancuso”. A fare da collante la comune appartenenza a logge massoniche. In questa storia, infatti, molti hanno la tessera in tasca. A partire dal boss Mancuso che all’imprenditore milanese rivela: “La ‘ndrangheta non esiste più, la ‘ndrangheta fa parte della massoneria (…) Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari”. E massone è anche il magistrato Giancarlo Bianchi.

L’INGRANAGGIO DELLA ‘NDRANGHETA
L’inchiesta Purgatorio inizia nel 2010 seguendo i movimenti di alcuni capitani del clan. Un anno dopo le indagini fotografano i rapporti tra i boss e diversi rappresentanti delle istituzioni. La svolta avviene quando sulla scena compare la figura di Antonio Galati, l’avvocato dei Mancuso e nome noto alle recenti cronache giudiziarie calabresi. Galati, infatti, è stato coinvolto, assieme all’ex giudice del tribunale di Vibo Patrizia Pasquin, nell’indagine Do ut des del 2005, accusati, assieme a un bel gruppo di imprenditori e professionisti, di corruzione in atti giudiziari, concorso in truffa aggravata in danno della Regione Calabria e dell’Unione europea. Per quella inchiesta, l’avvocato dei boss è stato assolto in primo grado. Una sentenza cui i pm si sono appellati.

Torniamo allora all’operazione Purgatorio. E così intercettazione dopo intercettazione, gli investigatori dispongono sul tavolo una serie di pedine che compongono quello che lo stesso legale definisce “l’ingranaggio” a disposizione della ‘ndrangheta. Un sistema perfetto di relazioni, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo. A completare il gruppo, due importanti dirigenti della squadra Mobile di Vibo Valentia: Maurizio Lento ed Emanuele Rodanò.

Il quadro è chiaro, gli obiettivi anche. Il Ros ne snocciola alcuni: condizionare l’esito di processi in cui sono coinvolti i Mancuso, violare il segreto d’ufficio, alimentare una “guerra interna” contro altri magistrati del distretto di Catanzaro, anche attraverso un’opera di “dossieraggio” orchestrata dallo stesso Galati.

MAGISTRATI INDAGATI: “RIVELARONO NOTIZIE RISERVATE”
Primo risultato: la posizione dei tre magistrati passa alla Procura di Salerno competente. Bianchi, Boninsegna e Petrolo vengono accusati di aver rivelato informazioni coperte da segreto. L’accusa ne propone l’interdizione. Richiesta che sarà negata dal giudice per le indagini preliminari. Un atto dovuto da parte della procura campana che ha provocato, in parte, la discovery dell’inchiesta del Ros di Catanzaro con il deposito di un’informativa di oltre mille pagine.

LA DISTRAZIONE DEI GIORNALI CALABRESI
La notizia è clamorosa. Eppure i media nazionali non la registrano. Mentre i quotidiani calabresi la depotenziano. E così, mentre il Ros annota “i concreti e rilevanti contributi, volontariamente forniti dal giudice Bianchi alla cosca Mancuso”, i giornali locali definiscono l’importante magistrato “un togato senza macchia” che “contro la malavita ha usato sempre la mano pesante”. Un rigore che non emerge quando il giudice autorizza Filippo Fiarè, sorvegliato speciale vicino ai Mancuso, a recarsi più volte a Vibo Valentia per sostenere visite odontoiatriche nello studio del figlio. E del resto Bianchi, non pare particolarmente solerte, nel momento in cui l’amico Galati gli rivela che lo stesso Fiarè è il mandante di un omicidio di mafia. Il particolare è tanto vero che mesi dopo il caso sarà risolto. Ma quando Bianchi riceve la confidenza, però, gli investigatori sono ancora in alto mare. Cosa fa il magistrato? Si tiene in tasca la notizia “violando i doveri della sua pubblica funzione”. Un’omissione che, secondo il Ros, favorisce Fiarè, capo dell’omonima cosca alleata con i Mancuso.

LE PRESSIONI DELLA COSCA SUL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURALa zona grigia così si allarga e mentre Bianchi, sostengono i carabinieri, rassicura i Mancuso su future assoluzioni, i professionisti della ‘ndrangheta tentano di influenzare le decisioni del Csm a favore dello stesso giudice. Succede tutto alla fine dell’ottobre 2011, quando Antonino Daffinà, già vicesindaco Udc di Vibo, parente dello stesso Bianchi, nonché commercialista di Pantaleone Mancuso interpella l’onorevole Roberto Occhiuto anche lui dell’Udc. Obiettivo (poi fallito), intervenire sul vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Michele Vietti (Udc), affinché il Csm sposti Bianchi al tribunale di Palmi. Una nomina che però non appare scontata, visto che oltre a Bianchi c’è in ballo il nome di un magistrato di Paola (Cosenza) Silvia Capone. Galati ne parla con una toga amica. I due concordano sul fatto che la Capone non avrebbe “proprio i titoli per questo posto”. Quindi  sostengono che la Capone “probabilmente è sostenuta da Magistratura democratica”. Per questo, entrambi consigliano a Bianchi di sentire il giudice Massimo Lento (fratello del poliziotto inserito nell’ingranaggio), importante esponente di Md. Obiettivo: “Vedere se in commissione c’è qualcuno di Md per denunciare la porcata”.

GUERRA INTERNA, TOGHE CONTRO TOGHE
La questione del Csm introduce così il tema della “guerra interna” al distretto giudiziario di Catanzaro che Galati e compagnia scatenano contro un giudice e un procuratore di Vibo Valentia. Ancora una volta si mette in moto l’ingranaggio che ormai è ben oliato. L’avvocato dei Mancuso ne parla con Petrolo, sostenendo che anche un importante magistrato di Cosenza, pur essendo di Md, si è messo con loro “per creare questa frattura, anche all’interno di Md”.

C’è di più: l’avvocato dei boss, intercettato, confida di aver incontrato un sostituto procuratore generale in grado di fornire notizie su uno dei due magistrati. Particolare inquietante: l’incontro viene mediato da un imprenditore legato ai Mancuso. Il magistrato contattato da Galati viene identificato dal Ros in Salvatore Librandi. Galati ne parla al sostituto procuratore Boninsegna. “Ieri ho avuto un colloquio… un incontro con una persona… un magistrato… Sostituto Procuratore Generale (…) che dice: ma com’è sta situazione al Tribunale di Vibo Valentia? Ho detto: mah… un po’ ingarbugliata! Perché? Dice: ma voi non prendete provvedimenti su questa sezione fallimentare? Il giudice delegato ai fallimenti che dà incarichi al fratello?”. Gli investigatori ci mettono poco a capire di chi stanno parlando.

LA RAGNATELA DEL GIUDICE REGOLO: MARIO SPAGNUOLO, ROBERTO LUCISANO E ALESSANDRO PISCITELLI

Si tratta del giudice Fabio Regolo. Annotano i carabinieri: “In questa circostanza venivano espressi analoghi riferimenti nei confronti di altri magistrati, che gli interlocutori indicavano come legati al giudice Regolo, ovvero il Presidente del Tribunale di Vibo Valentia, Roberto Lucisano, il Procuratore della Repubblica, Mario Spagnuolo, il giudice Alessandro Piscitelli”. Gli uomini del Ros di Catanzaro registrano, dopodiché accertano che in effetti Fabio Regolo ha un fratello che lavora a Milano in un studio di commercialisti che negli anni ha avuto diversi incarichi giudiziali dal Tribunale di Vibo Valentia.

L’AVVOCATO RASSICURA IL BOSS: “QUEL PM SE NE FOTTE”
Favori reciproci e rapporti pericolosi. Il gruppo si tiene insieme così. Il magistrato Giampaolo Boninsegna, ad esempio, non mostra imbarazzo a salutare in aula il boss Luigi Mancuso. Oppure a intrattenere rapporti di amicizia con l’avvocato Galati. Lui, a detta del legale che vuole rassicurare il boss, “è uno che se ne fotte”. Boninsegna è coinvolto nella rivelazione di un’inchiesta a carico del genero di Pantaleone Mancuso. Il suo collega, Paolo Petrolo, chiacchierando sempre con Galati, addirittura, fa i nomi di alcuni indagati che da lì a pochi mesi saranno arrestati per un enorme traffico di droga. Torniamo allora al casolare in località agro di Limbadi. L’imprenditore e il boss hanno finito la bottiglia di Ferrari. La microspia registra le ultime parole del padrino: “Bisogna modernizzarsi, non stare con le vecchie regole, il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose”.