Mario Draghi, servitore dell’alta finanza massonica internazionale e dei poteri forti

Accolto da un coro pressoché unanime e plaudente, Mario Draghi divenne il nuovo governatore della Banca d’Italia il 29 dicembre 2005. Per lui sono state sprecate le lodi e gli aggettivi specie da parte del “centrosinistra”: “una scelta di alto profilo” (Prodi), “Una guida forte e sicura per Bankitalia” (Veltroni), una “biografia intellettuale di tutto rispetto” (Liberazione), “Ama il dialogo, il lavoro di staff, la discussione, circondarsi di intelligenze” (il manifesto).

Ma chi è veramente l’uomo che venne presentato come una sorta di “salvatore della patria”, colui che sarebbe stato capace di restituire “prestigio” e “credibilità” a Palazzo Koch e all’Italia intera a livello internazionale?

Draghi è innanzitutto il grande privatizzatore che ha contribuito in prima persona a svendere tutto il patrimonio industriale e finanziario pubblico gettandolo nelle fauci del mercato privato italiano e internazionale con un costo sociale altissimo soprattutto in termini di occupazione.

È l’uomo dell’alta finanza massonica internazionale da Soros, ai Rothschild, alla Goldman Sachs, accusato di essere “l’anima nera” dei “poteri forti” internazionali organizzati in associazioni di tipo massonico come Bilderberg e Trilateral alle cui converticole è stato spesso presente.

Draghi è nato nel 1947 a Roma. Frequenta il liceo dei gesuiti Massimo. Il suo compagno di scuola è il futuro presidente della Fiat e di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, che, guarda caso, oggi è stato uno dei suoi principali sponsor. Negli anni ’70, all’università, è allievo prediletto di Federico Caffè, col quale si laurea in economia e che, da barone, imporrà la sua carriera accademica. Studia e insegna nei migliori campus Usa e consegue un Ph.d in Economics presso il Massachussetts Institute of Technology (MIT). Gli Usa saranno una sua seconda patria. Poi verrà anche Londra, o per meglio dire la City.

Dal 1981 torna in Italia e insegna all’Università di Firenze. Alla fine degli anni ’80 approda nei corridoi ministeriali come consigliere economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a rappresentare l’Italia negli organi di gestione della Banca Mondiale. Draghi comincia così a tessere i suoi forti legami internazionali e interni.

Nel ’90 è consulente proprio della Banca d’Italia con Ciampi governatore, del quale si dice a tutt’oggi sia uomo fidato. Alla Banca d’Italia lavorava anche il padre di Draghi, Carlo, all’epoca di Donato Menichella.  Nel 1991 diventa direttore generale del Tesoro. Fino ad allora un incarico poco ambito. Ma Draghi riesce a trasformare quell’incarico in una delle poltrone chiave del potere economico e finanziario del Paese.

Negli stessi anni è membro del Comitato monetario della CEE e del G7, nonché presidente di Gestione Sace. Dal ’91 al ’96 è nel CdA dell’IMI e dal ’93 presiede il Comitato per le privatizzazioni. Dal ’94 al ’98 è presidente del G10 Deputies. Al nome di Draghi si lega anche il nuovo testo per la finanza societaria, che passa alla storia, appunto, come Legge Draghi. Una legge che contiene le nuove regole sull’Opa.

In sostanza, per dieci anni, fino al 2001, Draghi resta alla torre di controllo dell’industria e della finanza pubbliche nonostante la giostra di ministri e di governi che si sono succeduti: dal governo Andreotti, che lo nominò la prima volta, a quelli Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi.

La chiave di volta della sua inarrestabile carriera, sembra essere il 2 giugno del 1992 quando Draghi partecipa a una “crociera” sul lussuoso yatch “Britannia” della regina Elisabetta d’Inghilterra che incrocia a largo di Civitavecchia. Tra i passeggeri figurano i rappresentanti delle banche più importanti e dell’alta finanza “giudaico-anglosassone”, Barings, Barchlay’s e Warburg, il banchiere e speculatore internazionale George Soros e, per l’Italia, Mario Draghi, Beniamino Andreatta, collaboratore di Prodi, e, sembra, il ministro del Tesoro Barucci.

Si dice che su quella nave sia stata messa a punto e deliberata una strategia che doveva portare alla svalutazione della lira e alla completa privatizzazione delle partecipazioni statali italiane a prezzi stracciati grazie alla svalutazione. Non vi sono prove, ma certo ciò che avvenne a distanza di soli tre mesi, non può essere pura coincidenza. Fatto sta che a settembre dello stesso anno viene lanciato un attacco speculativo che porta a una svalutazione della lira del 30% ed al prosciugamento della riserva della Banca d’Italia con Ciampi che arriva a bruciare 48 miliardi di dollari.

Una crisi che portò anche allo scioglimento del Sistema Monetario Europeo (SME). E subito dopo si apre la stagione delle privatizzazioni: da Eni a Telecom, da Imi a Comit, al Credit, a Bnl. Passano in mano del mercato estero, oltre a buona parte del sistema bancario, i colossi dell’energia e delle comunicazioni, la Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Perugina, Mira Lanza e molte altre aziende dei settori strategici.

A governare lo smantellamento dell’Iri c’è Prodi col quale Draghi vanta un’antica amicizia e collaborazione nata nella frequentazione del Centro di studi economici bolognese Prometeia del DC Andreatta.

Sono tanto forti i legami di Draghi con buona parte della finanza internazionale, che Ciampi affida a lui tutto il lavoro diplomatico legato a superare le resistenze in Europa all’entrata dell’Italia nell’euro nel gruppo di testa. La lunga stagione di Draghi al ministero del Tesoro si chiude solo nel 2001, quando il ministro Tremonti chiama a sostituirlo Domenico Siniscalco.

Draghi lascia via XX Settembre e torna ad insegnare negli Stati Uniti. Dopo soli 5 mesi, nel 2002 entra in Goldman Sachs a Londra di cui ben presto diviene vicepresidente per l’Europa. Un altro clamoroso caso di conflitto d’interesse.

Nel curriculum di Draghi pochi ricordano il curioso riacquisto di una fetta di Seat da parte della Telecom che l’aveva appena ceduta. O del fatto che si è reso conto dell’affare “Telekom Serbia” solo quattro mesi dopo che l’operazione era stata conclusa. O della vendita alla Goldman Sachs per tremila miliardi delle vecchie lire dell’intero patrimonio immobiliare dell’Eni appena un anno prima, nel dicembre 2000, di essere nominato vicepresidente guarda caso proprio della Goldman Sachs.

Altro che “ottimo servitore dello Stato”. Piuttosto un ottimo servitore degli interessi speculativi dell’alta finanza e del capitalismo italiano e internazionale, quanto se non di più del deposto Antonio Fazio dal quale lo distinguono solo le principali correnti e lobby politiche, economiche e finanziarie di riferimento, che a volte agiscono in combutta, a volte in contrapposizione. Fonte: Il Bolscevico