‘Ndrangheta e appalti. Furgiuele e le aziende di famiglia

Le avventure imprenditoriali del deputato leghista Domenico Furgiuele e del suo ingombrante suocero, Salvatore Mazzei, il “re” della Salerno- Reggio Calabria, hanno conquistato la ribalta nazionale con l’operazione Waterfront nella quale è rimasto coinvolto il deputato, destinatario di un avviso di garanzia. Ha evitato l’arresto perché non figura più nelle carte dell’azienda di famiglia finita nel mirino della Dda di Reggio ma è facilmente dimostrabile il trucco che ha usato per avere ugualmente il controllo. Lo spiega bene L’Espresso, dal quale è tratto questo articolo dello scorso mese di febbraio.

Fonte: L’Espresso

IL TENTATIVO DI “AGGIUSTARE” LA SENTENZA
Considerato dai magistrati «imprenditore di riferimento delle cosche mafiose dominanti nei territori calabresi interessati dall’esecuzione di costose opere pubbliche», uscito indenne da due inchieste antimafia, ma condannato per estorsione, nel 2018 Mazzei è stato destinatario di un provvedimento di sequestro dell’intero patrimonio, per il quale pende tutt’ora ricorso a Catanzaro. E pur di vincerlo – filtra dalle ultime indagini – avrebbe fatto di tutto. Incluso bussare alla porta di quel circuito a trazione massonica, che aveva trasformato la Corte d’appello di Catanzaro in un suq in cui ogni sentenza era acquistabile.

Una storia che viene fuori dalle carte dell’inchiesta di Salerno che ha portato all’arresto del giudice Marco Petrini e messo nei guai o in allarme un esercito di professionisti e imprenditori. Incluso Mazzei, che avrebbe pagato parecchio per comprare una sentenza favorevole e recuperare i beni confiscati o quanto meno per far cadere l’aggravante mafiosa.

A raccontarlo sono i protagonisti stessi di quel circuito, che dal momento dell’arresto hanno iniziato a parlare con i magistrati. Il primo è stato Mario Santoro, ex dirigente Asp e principale canale per arrivare al giudice Marco Petrini. «Un appartenente alla massoneria deviata» dice il pentito Andrea Mantella del magistrato, che «gradiva avere qualche regalo in cambio di ammazzare sentenze, preferibilmente denaro, orologi, comunque beni che non lasciavano traccia». Pensieri, mazzette e prebende che lo stesso Petrini ha ammesso da quando ha iniziato a collaborare con la procura di Salerno.

Ma inquirenti e investigatori già sapevano tutto. Per mesi hanno ascoltato il giudice e il suo faccendiere commerciare sentenze come frutta al mercato. E in quelle ore di chiacchierate è saltato fuori il nome del suocero del deputato leghista Domenico Furgiuele, Salvatore Mazzei.

CENTOMILA EURO PER DISSEQUESTRARE
La prima volta, l’11 aprile scorso. Santoro era insieme ad Ottavio Rizzuto, ex presidente del Credito cooperativo di Crotone, di recente arrestato nell’inchiesta antimafia “Thomas” come uomo a disposizione del clan Grande Aracri. È a lui che il faccendiere confida che dai processi c’è da guadagnarci tanto e c’è chi lo fa da anni. «C’è uno che ha fregato a Mazzei, più di 100mila euro, un commercialista». Gli investigatori non hanno dubbi, il professionista è Antonio Claudio Schiavone. E la vicenda è «relativa al sequestro operato dalla Dda di Catanzaro nei confronti dell’Imprenditore Salvatore Mazzei di Lamezia Terme». Per gli investigatori, il commercialista «avrebbe ottenuto delle somme di denaro da parte dell’imprenditore lametino al fine di interferire sul predetto giudice per fare restituire dei beni sottoposti a sequestro nell’ambito di una indagine della DDA di Catanzaro».

Un paio di settimane dopo, un’altra conversazione fra Santoro e il giudice in questione, Marco Petrini, chiarisce i contorni della vicenda. I due non sanno di essere intercettati, ma parlano comunque in modo criptico. Gli argomenti sono delicati. Il faccendiere chiede dei Mazzei, di come vada la causa, quali siano le possibilità concrete di aggiustarla. «Ma l’associazione non gli cade?» domanda il faccendiere. Petrini non si sbilancia, i due iniziano a parlarsi all’orecchio. Ma poco dopo – si legge nella trascrizione di quella conversazione fatta dalla Finanza – il giudice racconta che il commercialista Schiavone gli avrebbe chiesto anche una quota di quanto versato da Mazzei per aggiustare a dovere la consulenza.

«Mi ha chiesto un mese fa della perizia» confida il giudice al faccendiere, che subito arriva al nocciolo «quanto ti ha chiesto?». Quindicimila euro, risponde Petrini indignato. «Sono troppi». Ma in quel processo, la perizia di Schiavone – spiega poi Santoro al pm Luca Masini, che lo interroga a Salerno – aveva un ruolo fondamentale. Quanto messo nero su bianco avrebbe condizionato parecchio la Corte. «Ha fatto la perizia a Mazzei che diceva che i soldi sì… che era tutto a posto» confessa Santoro.

Il resto della vicenda è coperto da un lungo omissis, segno che la procura ha trovato più di un elemento da approfondire. Magari proprio a partire da quei 100mila euro che, nonostante il sequestro, Mazzei sembra aver recuperato senza difficoltà e – dice Santoro – consegnato al commercialista per recuperare i beni finiti sotto sigilli. Motivo del sequestro? «Risulta in maniera evidente come il Mazzei abbia rappresentato uno strumento sicuro di sviluppo di traffici illeciti non solo nel territorio lametino o nei confronti della cosca Mancuso. Un vero e proprio sistema criminale del quale appare aver fatto parte integrante il Mazzei Salvatore». E di cui ha beneficiato tutta la famiglia, inclusa la signora Furgiuele, perché «le risorse, ab origine fornite dal capostipite – si leggeva nel provvedimento – sono state trasferite indistintamente fra persone fisiche e soggetti collettivi, a seconda dell’abbisogna del momento».

FURGIUELE E LE AZIENDE DI FAMIGLIA
E cosa c’entra Domenico Furgiuele? L’onorevole calabro-leghista si è sempre detto solo colpevole «di essere innamorato di mia moglie», figlia di Mazzei e titolare di quote in diverse società del gruppo. Anche quando i carabinieri gli hanno bussato a casa con un decreto di sequestro per la signora, non si è scomposto. «Non mi imbarazza, no. In Italia ci sono tre gradi di giudizio e bisogna essere garantisti. Siamo in uno Stato di diritto. O no?» aveva detto qualche giorno dopo a Repubblica.

Peccato che con l’impero societario del suocero lui abbia avuto direttamente a che fare. E non da semplice coniuge di una delle principali socie, Stefania Mazzei. Per lungo tempo dipendente delle aziende di famiglia, la Drusal Calcestruzzi e la Mazzei Salvatore spa, improvvisamente fa carriera. E con una sua società quasi rileva l’attività del gruppo. Si tratta della Terina Costruzioni, costituita il 26 giugno 2010, quando in procura si iniziava a lavorare al sequestro del patrimonio Mazzei. Soci fondatori, la cognata di Furgiuele, Maria Concetta Mazzei, con l’80% e il deputato leghista, con il 20%, che però viene nominato amministratore e tale rimarrà fino al 4 maggio 2018, due mesi dopo l’elezione alla Camera in quota Lega.

Oggetto sociale, assolutamente identico a quello delle imprese del suocero e del cognato, Armando Mazzei. Al pari dell’indirizzo. La Terina trova casa in contrada Caronte come l’impresa individuale “Mazzei Salvatore”, la Grandedil scarl, la Bingo games sas, l’Aerohotel phelipe di Mazzei Armando & C sas, l’impresa Mazzei Geom. Armando srl, e un’altra serie di ditte riconducibili alla famiglia. Al numero 51, risultano persino residenti Salvatore Mazzei e la moglie Drusiana Caputo, e domiciliata la socia di maggioranza della Terina, Maria Concetta Mazzei.

Domenico Furgiuele
Domenico Furgiuele

Qualche tempo dopo, il 18 gennaio 2011, la sede legale della Terina cambia e si colloca addirittura a casa di Furgiuele. O almeno, nello stesso palazzo di proprietà della moglie Stefania, in cui lui stesso risulta domiciliato. Modello casa e bottega.

Ma a cosa serve la Terina? Appare abbastanza chiaro il 22 novembre del 2010, cinque giorni dopo l’emissione del decreto con cui il Tribunale di Catanzaro dispone la sorveglianza speciale a carico di Salvatore Mazzei. Quel giorno la Co.ge.ma srl, una delle colonne dell’impero di Salvatore Mazzei, poi finita sotto sequestro, stipula un contratto di affitto di ramo d’azienda con Terina, in mano a Furgiuele. E alla società dell’attuale deputato leghista cede anche «tutte le e commesse, pubbliche e private, attive al momento della cessione» e persino «le attrezzature, come visionate dall’affittuaria e nello stato di fatto e di diritto in cui si trovano, depositate presso la sede della concedente». Praticamente un travaso.

La Terina comincia a lavorare, nel 2015 Furgiuele diventa persino socio di maggioranza. Poi, due mesi dopo la sua elezione alla Camera, fa un radicale passo indietro. Improvvisamente cede tutte le sue quote e si dimette dall’incarico di amministratore.

A incamerare tutto però è un’altra società di famiglia nuova di pacca, la Proelia del cognato di Furgiuele, Armando Mazzei e della moglie, che per un tozzo di pane acquistano anche le quote della socia di minoranza. Una mossa preparata da tempo. La società esiste dal gennaio 2018, quando Furgiuele inizia a sognare la candidatura, galleggia per un po’ di mesi ed entra in ballo poco dopo la proclamazione del neodeputato leghista. Con un’altra operazione di travaso.

CAOS CALABRIA
Una situazione quantomeno imbarazzante per Furgiuele e un problema politico per la Lega di Matteo Salvini. Che a parole in Calabria si schiera con Nicola Gratteri, cioè lo stesso magistrato che ha chiesto e ottenuto i provvedimenti che la famiglia del suo deputato sembra aver cercato di ribaltare in modo illecito. Un nodo da sciogliere proprio nel mezzo delle delicate trattative tra Lega e centrodestra per i posti in giunta regionale con Fratelli d’Italia che spudoratamente corteggia più di un esponente del Carroccio.

Nella partita, Furgiuele sembra muoversi con la nonchalance di un imbucato a una festa che fa di tutto per farsi notare. Ridimensionato dopo il commissariamento del partito in Calabria, ha mal digerito l’affidamento del suo feudo al deputato bergamasco, Cristian Invernizzi. E non l’ha mai nascosto, né dentro, né fuori. Tanto meno sembra aver gradito il nuovo corso legalitario del Capitano in Calabria. E per alcuni, che hanno notato l’assenza dell’unico deputato calabrese alla visita al comando provinciale dei carabinieri di Vibo Valentia, sembra aver inteso farlo notare al prezzo di uno sgarbo istituzionale.

Quasi latitante durante le iniziative di campagna elettorale che non fossero sul suo territorio, ridotto al rango di scenografia muta sui palchi e senza diritto di parola, alle regionali Furgiuele ha lavorato da separato in casa. Più che per il Carroccio, ha spinto per i suoi. E a urne chiuse ci ha messo la firma, riempiendo Lamezia di cartelloni che lo ritraggono sorridente insieme al “suo” neoconsigliere regionale Pietro Raso. Adesso la battaglia si sposta sulla Regione, dove per i ben informati vorrebbe piazzare uno dei suoi, magari in tandem con l’area che fa capo a Vincenzo Sofo, miracolato causa Brexit e spedito in Europarlamento. Ma la partita vera è sulla Lega in Calabria. Con Furgiuele che scalpita per riprenderla in mano e Matteo Salvini che potrebbe essere chiamato a passare dalle – sue – parole ai fatti. E perdere pezzi. Oggi il gran casino dell’operazione Waterfront, l’avviso di garanzia e il can can mediatico.