Omicidio Bergamini, 19-11-1989: la famiglia di Denis sul luogo del delitto

Nel giro di poche ore, nel cuore della notte, tra il 18 e il 19 novembre 1989, sono già in tanti a sapere dell’omicidio fatto passare per suicidio. Denis Bergamini è molto conosciuto a Cosenza e in città dilagano stupore e incredulità.

Non serve molto perché la vicenda cominci a tingersi di giallo. Padre Fedele Bisceglia e un gruppo di ultrà sono partiti per Roseto Capo Spulico e anche i ragazzi, così come Ranzani, hanno potuto vedere il cadavere di Bergamini e constatare che è praticamente integro fino al bacino.

Nessuno riesce a capire, in particolare, perché la magistratura di Castrovillari, competente per territorio, non ritenga di disporre l’autopsia e tenga il cadavere nella camera mortuaria di Trebisacce perdendo tempo prezioso.

LA FAMIGLIA BERGAMINI SUL LUOGO DEL DELITTO

«Verso le otto e mezzo di sera – ricorda Donata Bergamini – vennero da me i genitori di Brunelli, il secondo portiere del Cosenza, che è di queste parti. Io non c’ero, trovarono Guido, mio marito. Le notizie erano confuse e frammentarie».

«Io ero al bar – ricorda invece Domizio –. Ogni sabato ci trovavamo con gli amici per giocare a carte. I carabinieri di qua avevano telefonato a mia moglie per dire che Denis aveva avuto un incidente con la macchina. Una cosa grave. Maria mi chiama e mi dice di tornare a casa. Nel tragitto inizio a pensare a cosa può essere successo. Magari la macchina, la Maserati, che è bassa, ha urtato qualcosa».

Domizio, però, non è convinto, più di un elemento è fuori posto: «Era sabato, con la squadra in ritiro. Figurati se Denis l’avrebbe mai abbandonato. È sempre stato un ragazzo scrupoloso. Non gli ho mai dovuto dire di non fare tardi».

L’angoscia sale. Denis è vivo o è morto? Domizio è tormentato: «Arrivo a casa e, mentre mia moglie è lì che prepara le valigie, le dico: “Denis l’hanno ammazzato”».

I dubbi, in quel viaggio tra l’Emilia e la Calabria, sono ancora tantissimi. L’unico che sa qualcosa in più è Guido, il marito di Donata: «Gli tirammo fuori le parole con le pinze e credevamo poco a cosa ci stava raccontando mio marito. Papà insisteva sull’impossibilità che Denis avesse lasciato il ritiro. Poi spuntò fuori il nome di Isabella Internò, l’ex fidanzata di Denis con cui da mesi non stava più insieme, quindi il fatto che l’incidente fosse avvenuto a cento chilometri da Cosenza, la sera tardi. Non tornava nulla».

La famiglia Bergamini arriva alla stazione dei carabinieri di Roseto Capo Spulico nel cuore della notte: «Volevamo parlare con il brigadiere che aveva effettuato le prime operazioni – ricorda ancora Donata -. Ci dissero che dovevamo aspettare, che si stava facendo la barba e che avrebbe parlato solo con mio padre. Ci siamo arrabbiati, ma non c’è stato nulla da fare».

Il brigadiere Barbuscio, rasato a puntino, riceve Domizio: «Esordì dicendo: “Cosa ha fatto suo figlio?”. Poi mi raccontò una storia assurda, quella del suicidio. Mi disse che Denis aveva abbandonato il ritiro; che intorno alle 17:30 lo aveva fermato a un posto di blocco. Aggiunse che Denis aveva parcheggiato la Maserati su una piazzola sulla statale 106 Jonica; che era con quella ragazza con cui non stava più insieme da tempo; che voleva scappare; che voleva andare a Taranto per imbarcarsi per la Grecia; che aveva fatto l’autostop, ma nessuno si era fermato; che aveva detto alla donna: “Ti lascio il mio cuore, ma non il mio corpo” e che, intorno alle 19:30, quando ormai era buio, si era buttato sotto un camion per ammazzarsi. E che tutte queste cose gliele aveva dette quella ragazza».

Domizio sente il sangue ribollire: «Ma cosa pensava quel brigadiere, che potessi credere a quelle fandonie?». «La frase a effetto del corpo e del cuore», interviene Donata «non appartiene a Denis, non è sua».

A un certo punto, prima di uscire dalla stanza, Barbuscio consegna a Domizio una busta gialla. Dentro ci sono i documenti di Denis, 500.000 lire in contanti, un assegno di 9 milioni non cambiabile, la catenina e l’orologio che portava al polso il giorno prima: «Era intatto – dice sbalordito Domizio -, così come la catenina. Non c’era neanche un graffio. E funzionava. Ma come: uno viene investito da un camion di 130 quintali (che poi ripassa anche a marcia indietro sul corpo, secondo la versione ufficiale) e la catenina e l’orologio neanche si rompono?»

Domizio vuole vedere il luogo dell’incidente, ma Barbuscio inizialmente non intende accompagnarlo. Poi si rassegna all’incombenza. Ma le “sorprese” non finiscono. «Mentre usciamo dalla caserma, vediamo il Maserati bianco parcheggiato nel garage. È pulitissimo, nessun segno di fango, niente. Come nuovo. Eppure il giorno prima pioveva…».

Non quadra nulla. E sarà peggio con il passare dei minuti. Riprende il racconto Domizio: «Veniamo condotti fino alla famosa piazzola. È un’area vastissima, enorme. Coperta di fango. La strada è lontana. Chiediamo al brigadiere di indicarci il punto esatto dell’impatto e lui farfuglia qualcosa. Gli facciamo delle domande e non risponde. Mio genero Guido va sull’asfalto. Non ci sono segni di frenata. Si sposta, percorre alcuni tratti a piedi, ma nulla. Eppure ci hanno detto che il corpo è stato trascinato per oltre sessanta metri».

La rabbia prende il posto dell’angoscia e del dolore: «Solo in un secondo momento ci siamo resi conto che Barbuscio ci aveva fatti fermare molti metri prima rispetto al luogo del presunto impatto. Ce ne accorgemmo guardando il giorno dopo il “Processo del Lunedì”».

Il mistero si infittisce. Gli interrogativi rimangono senza risposta. Peggio che mai quando i familiari di Denis si recano all’obitorio, a Trebisacce: «All’inizio ci ostacolarono», ricorda Donata. «Chiedemmo di avere i suoi vestiti, ma ci dissero che li avevano già distrutti. Poi riuscimmo a vedere il volto di Denis. Era intatto. Il medico legale che fece poi l’autopsia, certificò che era presente una ferita sulla parte destra del corpo. Ma Denis venne trovato a pancia in giù, per cui le ferite avrebbero dovuto essere sul lato opposto. Ma c’è di più: nella perizia, si dice che la persona era supina quando fu investita e non in piedi come dichiarato dall’autista del camion».

Si ferma per un attimo, Donata. Prende una foto e la mostra: «Questo è un ingrandimento, a colori, dell’unica fotografia che ci fu fatta vedere in quei momenti: una polaroid in bianco e nero, grande come una figurina dalla quale si poteva solo intuire qualcosa». L’immagine è un cazzotto nello stomaco. Ma è chiara. Così come è lampante un altro aspetto: le scarpe di camoscio ai piedi di Denis sono integre e le suole pulite. Donata si alza un’altra volta: «Eccole qui le scarpe. Ce le ha fatte avere un collaboratore del Cosenza nel marzo 1990, in segreto. Sembrano quelle di una persona che ha camminato nel fango e che poi è stata investita e trascinata per sessanta metri?»

Denis lo hanno ammazzato. Domizio lo ha detto fin dal primo momento. La storia del suicidio non poteva reggere. Ma anche la versione ufficiale dell’incidente stradale non ha mai convinto. Ha iniziato subito la sua battaglia per la verità: «Sono andato avanti io. Ho tenuto fuori mia moglie e Donata. Sono tornato diverse volte su quella piazzola e a Cosenza. E tutte le volte, c’era qualcuno che mi seguiva. Ho partecipato a tutte le udienze, mi sono battuto per difendere Denis dalle accuse più ingiuste. La stampa ha iniziato ad avanzare ipotesi sul calcio scommesse. Ma Denis non vendeva le partite. Qualcuno ha avuto da ridire su quel Maserati. Io ho la convinzione che il calcio nella morte di Denis c’entri poco o nulla. I motivi sono da ricercare altrove, nella sfera dei rapporti privati».

«Sono troppe le cose che non vanno. Intanto se uno vuole veramente scappare all’estero, non gli bastano 500.000 lire. Per non parlare della Maserati. Per i carabinieri si trovava contemporaneamente in due posti diversi… Senza contare le versioni della ragazza e del camionista: una buffonata. E poi, anche la storia che lui abbia abbandonato il ritiro di sua spontanea volontà non convince. Non è da lui. Oltretutto proprio quella mattina era uscita un’intervista sui giornali in cui mostrava tutta la sua grinta e la carica in vista del derby con il Messina, la partita del giorno dopo. No, non è andata come hanno voluto far credere».

Sono stati in molti a chiedere a Domizio e a Donata come mai non insistettero subito sulla necessità di procedere all’autopsia. La risposta è onesta: «Eravamo frastornati. I dirigenti del Cosenza ma anche il legale cosentino che era stato indicato da loro ci avevano consigliato di evitare, che forse c’era la possibilità di avere un’assicurazione importante in caso di incidente e altre storie del genere. Ma capimmo subito che c’era qualcosa che non andava. Subito dopo abbiamo fatto di tutto per procedere alla riesumazione di Denis. Volevamo capire anche che fine avessero fatto i vestiti. Padre Fedele fece una telefonata e gli dissero che erano stati già bruciati…».