Omicidio Bergamini, Santo Carelli e lo scettro strappato a Donna Gina

Santo Carelli

Tra i lati oscuri da decifrare per arrivare a chiudere il cerchio delle coperture necessarie per eliminare Denis Bergamini nel territorio della Sibaritide, non c’è dubbio che si debba inserire l’aspetto relativo agli equilibri di forza nella criminalità organizzata. Non perché sia la malavita a decretare la morte di Denis ma perché lo stato deviato per portare a termine la sua missione di morte deve chiedere il lasciapassare al suo alter ego.

Se il caso Bergamini è rimasto insabbiato per più di vent’anni, non c’è dubbio che le responsabilità maggiori siano state della procura della Repubblica di Castrovillari.

LE COLPE DELLA PROCURA

Tutti i media nazionali, che da qualche anno a questa parte si sono nuovamente interessati al caso, non hanno potuto fare a meno di rilevare le assurde e quasi irritanti contraddizioni e incongruenze dei magistrati che hanno seguito le indagini.

Il primo pubblico ministero del caso Bergamini è Ottavio Abbate, oggi 73enne, nativo di Longobardi, un piccolo paese del Tirreno cosentino. Nel 1989 è ancora relativamente giovane (ha poco più di 40 anni) ma trascura incredibilmente ogni indizio e solo dopo le insistenze della famiglia Bergamini si decide (bontà sua) a disporre l’autopsia. E meno male che nel suo curriculum c’è anche un passato di vicequestore…

Per non parlare delle perizie “lette” solo e soltanto in una direzione, della stessa autopsia nella quale erano e sono contenuti i rilievi per dare un’altra lettura del caso e della miriade di testimoni, quasi volutamente ignorati per non arrivare alla verità. Diciamocelo francamente: soltanto un giudice “strabico”, se non vogliamo chiamare in causa la malafede, non avrebbe capito che ci si trovava davanti ad un omicidio e non ad un suicidio. Oggi Abbate è un anziano magistrato in pensione e soltanto alla fine del 2011 ha concluso il suo mandato di Presidente del Tribunale di Castrovillari.

Fino a poco tempo fa, poi, è stato il presidente del Tribunale di Campobasso prima di aver “conquistato” una ricca pensione, sperando che adesso sia venuto il momento di chiamarlo in causa per tutto quello che ha fatto.

Ma, poiché è rimasto a Castrovillari fino all’altro ieri, Abbate rappresenterebbe l’ideale continuità tra il passato e il presente di questa procura. Il nuovo procuratore Eugenio Facciolla aveva cambiato completamente registro dimostrando quell’integrità morale che chi l’ha preceduto non ha avuto in tutti questi lunghissimi anni. E aveva avviato la “macchina della verità” anche nei confronti di questo suo impresentabile collega prima di essere “eliminato” dai poteri forti di questo Paese.

castrovillari-tribunale-2I COMUNI DELLA GIURISDIZIONE: LA SIBARITIDE

Il Tribunale di Castrovillari esercitava la propria giurisdizione su 39 Comuni con una popolazione di 135.246 abitanti, pari a 2.029,32 abitanti per chilometro quadrato, residenti su un territorio morfologicamente diverso e complesso. Dal montuoso ed impervio al marittimo e rivierasco. Poi c’è stata l’aggiunta dei comuni ricadenti nel Tribunale di Rossano, chiuso qualche tempo fa.

Ma la nostra attenzione va sulla Sibaritide. All’interno di questa giurisdizione ci sono tutti i 60 chilometri di costa sibarita (da Rocca Imperiale a Sibari), compresi i sette Comuni litoranei (oltre a Rocca Imperiale, Montegiordano, Roseto Capo Spulico, Amendolara, Trebisacce, Villapiana e Cassano) più importanti della Sibaritide.

Cerchiamo allora di mettere a fuoco qual era la realtà criminale di questa zona molto importante della Calabria. Se consideriamo la Sibaritide una provincia, come ancora oggi è auspicato da molti, Cassano ne costituisce naturalmente la “mala capitale”.

La mafia nasce, si sviluppa e si potenzia nelle zone più ricche, poiché ha bisogno di ricchezze da sfruttare a suo piacimento.

Da questo punto di vista Rossano e Corigliano dovrebbero occupare una posizione migliore sia per il volume della ricchezza che per grandezza, poiché costituiscono la naturale conurbazione della Sibaritide. La Sibaritide è un terreno molto omogeneo che va da Rocca Imperiale a Cariati e presenta problematiche molto simili, con presenza di clan la cui pericolosità non va sottovalutata per poter impostare una efficace politica di contrasto. Cassano occupa una posizione centrale e qui si coagulano una molteplicità di interessi poiché tutto finisce per convergere a Sibari, ma non si può certo affermare che Cassano è un centro di mafia mentre Corigliano e Rossano (oggi città unica) ne sono immuni. Siamo dunque al centro di un territorio nel quale la criminalità ha una infinità di interessi.

Giuseppe Cirillo
Giuseppe Cirillo

IL CLAN CIRILLO

Dovendo tracciare la genesi storica del fenomeno criminale nella Sibaritide non si può prescindere dal clan Cirillo.

Giuseppe Cirillo, capo indiscusso dell’organizzazione ed influente “mammasantissima” della Sibaritide sino al 1995 (anno del suo pentimento, lo stesso di Franco Pino), era di origine napoletana. Negli anni settanta decide, con il sostegno di alcuni “amici degli amici”, di trasferirsi in Calabria, nella zona fra Amendolara e Cariati. Non perché fosse innamorato pazzo della Calabria, né tantomeno per contrarre matrimonio con una bella “calabresella”. Cirillo viene in Calabria per fondare una ‘ndrina nella sterminata Sibaritide, tra la Sila ed il Pollino.

Don Peppino Cirillo camminava sotto la “Fibbia” di “Don Raffaele” Cutolo inteso ‘O Professore, pezzo da novanta della camorra, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, recentemente scomparso (febbraio 2021) dopo una lunga detenzione. Col permesso anche del compare di Cutolo, il mammasantissima della ‘ndrangheta “Don Paolino” De Stefano, ammazzato ad Archi il 13 ottobre del 1985. Successivamente il suo referente con la ‘ndrangheta diventa Don Pasquale Condello, capobastone della mafia calabrese.

Come è stato più volte dimostrato, la Sibaritide è stato un luogo prescelto dalla camorra napoletana per diversificare i suoi investimenti. Qui si è presentata con il suo volto imprenditoriale rilevando alcune aziende e gestendole direttamente. In questo modo si è insediata stabilmente sul territorio ed ha iniziato a tendere i suoi tentacoli nella struttura economica locale.

Le prime tre aziende erano agricole, successivamente il suo interesse si è esteso in tutti i settori dell’economia. Don Peppino realizza insediamenti produttivi e commerciali, costringendo gli imprenditori della zona a subire in silenzio la sua invadenza.

Cirillo e il cognato, Mario Mirabile, riescono a diventare in breve tempo, interlocutori privilegiati delle due più potenti consorterie delinquenziali del Meridione. Dopo aver eliminato alcuni “alleati” che gli facevano ombra, il boss Cirillo “manda” Mirabile in Campania e il cognato di don Peppino diventa l’uomo di riferimento della “Nco” di Raffaele Cutolo nel Salernitano. Impianta bische e gestisce grandi estorsioni in accordo con “Tore u guaglione” da sempre uomo di fiducia di “don Raffaele” e Vincenzo Casillo, detto “O Nirone” braccio destro del capo assoluto della Nco.

Salvatore Frasca
Salvatore Frasca

LA PROCURA IN MANO AL CLAN CIRILLO

Siamo ormai negli anni Ottanta. Il cosiddetto “locale” di Sibari gestito da Peppino Cirillo ha il territorio in mano e le istituzioni pubbliche sono ai suoi piedi.

L’unico ente che ha percepito fin dall’inizio la pericolosità di quella presenza è stato il comune di Cassano allo Ionio. Il sindaco è Salvatore Frasca, che negli anni Settanta e Ottanta è stato senatore e anche sottosegretario del vecchio Partito socialista. Non a caso, Cassano allo Jonio è stato il primo comune che in Italia si è battuto per l’acquisizione e l’ utilizzazione a scopo sociale del patrimonio sequestrato alla criminalità organizzata.

Le aziende di Cirillo sono state tutte confiscate dalla magistratura ed il comune le ha utilizzate per creare il centro per il recupero dei tossicodipendenti dato in gestione all’Associazione Saman. Proprio il Comune di Cassano è stato il primo a capire la pericolosità del fenomeno Cirillo, a mobilitarsi per combatterlo, poiché le forze dell’ordine e la magistratura avevano sottovalutato clamorosamente la sua pericolosità.

Da cosa nasceva questa tiepidezza nell’azione di contrasto?

E’ proprio Salvatore Frasca a dare una risposta sotto certi aspetti inquietante. La procura di Castrovillari, che dovrebbe “controllare” certi fenomeni, non solo li tollera ma è a tutti gli effetti connivente.

«La completa assenza di un’azione di contrasto al clan nasceva dalla scarsa conoscenza della sua natura e della sua ramificazione nel territorio – sostiene Frasca -, tanto che la stessa magistratura gli affidò il villaggio Bagamoio che era in gestione fallimentare. Tutti i magistrati e gli avvocati di Castrovillari erano degli habitué di quel club… Cosa era veramente Cirillo lo hanno scoperto nel corso degli anni successivi, quando è apparsa con ogni evidenza la sua vera natura. Cirillo aveva creato uno stretto legame con la criminalità di Cirò estendendo di molto il suo potere mafioso anche a Corigliano e Rossano…».

Dunque, la Procura della Repubblica di Castrovillari si piega in tutto e per tutto al volere del clan Cirillo e i magistrati si fanno vedere insieme ai delinquenti senza nessun tipo di problema in questo villaggio Bagamoio.

A metà degli anni Ottanta il boss Cirillo viene indagato, arrestato e processato e finisce in galera, al soggiorno obbligato ad Ancona. A prendere il suo posto è il cognato Mario Mirabile, che fa ritorno nella Sibaritide con il preciso obiettivo di assumere il controllo del clan. Insieme a lui tuttavia c’è anche la moglie di don Peppino, Maria Luigia Albano, per tutti “Donna Gina”. E secondo molti era proprio lei il “vero capo” ma qualcuno condanna a morte Mirabile perché, nel frattempo – come spiegheremo a breve – gli equilibri di forza sono cambiati.

Per sei anni la donna del boss, dal 1984 al mese di agosto del 1990 (quando poi viene ucciso Mario Mirabile), carattere forte, maniere risolute, gestisce gli affari della famiglia intrecciando anche rapporti con apparati dello Stato. Nonostante non ci sia più don Peppino, le istituzioni pubbliche e la giustizia sono ancora ai piedi del clan ma non solo di Donna Gina bensì anche e probabilmente soprattutto dell’alleanza che si sta creando per toglierle lo scettro dalle mani.

IL CLAN CARELLI E L’OMICIDIO BERGAMINI

Cosa significa tutto questo? Beh, è molto semplice.

Chi vuole uccidere una persona ed essere “coperto” in questo territorio può anche non parlare con “Donna Gina”. Nel 1989 nella Sibaritide si sta preparando ormai da tempo il ribaltone per mandare via Donna Gina e Mario Mirabile, suo cognato. Cirillo ha comandato per anni la Sibaritide in pieno accordo con Pasquale Tripodoro, boss di Rossano, Santo Carelli, boss di Corigliano e Franco Pino, federato per Cosenza. Ma da quando non c’è più il boss, gli equilibri sono cambiati e Santo Carelli ha iniziato da tempo le manovre per diventare il capo eliminando il clan Cirillo e alleandosi con gli stessi Tripodoro e Franco Pino.

Santo Carelli

LO SCETTRO STRAPPATO A DONNA GINA – L’ascesa di Santo Carelli a Corigliano parte da qui, da quando cioè riesce a sfruttare cinicamente la forzata assenza del boss Cirillo che si trova al soggiorno obbligato in provincia di Ancona. Nella zona comunque serpeggia un certo malcontento perché dal punto di vista della gestione della cosca, Carelli concede maggiore autonomia alle ‘ndrine: pretende di partecipare agli utili solo per gli affari criminali più importanti, sovvertendo di fatto il centralismo di Cirillo. Donna Gina, del resto, veniva chiamata dai malavitosi del clan “la padrona” per la funzione di comando che svolgeva in assenza del coniuge e che non era certo favorevole alle loro speranze di crescita e di guadagno.

Quando Cirillo manda nella Sibaritide Mario Mirabile, boss a Salerno della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, per riprendere il controllo di quello che era il Locale di ‘ndrangheta di Sibari, la situazione è già delineata e il Locale è di fatto finito nelle mani di Santo Carelli. Il quale, prima di fare eliminare Mario Mirabile, era andato a trovare Cirillo a Serra dei Conti in provincia di Ancona, sede del soggiorno obbligato, per comunicargli che non era possibile ammettere dei napoletani a Sibari.

Mario Mirabile, dunque, ha i giorni contati. E’ invadente, si scontra con Carelli in maniera sempre più plateale e viene ucciso il 31 agosto del 1990, a colpi di fucile mentre era alla guida della sua Bmw alle otto del mattino nei pressi del bivio per la frazione Thurio di Corigliano Calabro.
Santo Carelli aveva fondato dunque il Locale ‘ndranghetista di Corigliano Calabro. Che inglobò, con l’assenso del Crimine superiore di Cirò, il vecchio Locale di Sibari che fu guidato da Cirillo.
“Don” Santo Carelli favorì una maggiore autonomia delle singole ’ndrine, che Cirillo aveva precedentemente tenute assai “strette”.

Capo indiscusso del Locale ‘ndranghetista di Corigliano Calabro, Santo Carelli detto “Santullo”, è stato condannato in via definitiva a ben tre ergastoli per associazione mafiosa e reati ad essa collegati tra cui plurimi omicidi ed estorsioni. L’ultima sentenza di condanna definitiva nei suoi confronti l’aveva pronunciata la Corte di Cassazione il 22 giugno del 2006.
Insignito del grado ‘ndranghetista della “Santa”, «cioè d’un ruolo duraturo 
all’apice dell’organizzazione criminale d’appartenenza che non viene certamente meno, essendo al contrario amplificato, a causa della detenzione» (così la Corte di Cassazione il 7 luglio del 2005).
Tra i delitti per i quali è stato condannato spicca in particolare proprio quello di Mario Mirabile. E’ morto il 19 gennaio 2016. Era tornato a casa due mesi prima, agli arresti domiciliari, dopo che i medici del carcere avevano ritenuto che le sue condizioni di salute, aggravatesi negli ultimi tempi, erano incompatibili con la detenzione. Carelli era detenuto dal 17 febbraio 1993, al 41 bis dal 18 settembre 1996. Santo Carelli è stato definito dagli inquirenti un irriducibile, infatti mai ha inteso collaborare con la giustizia, ed in tutti i processi celebrati nei suoi confronti si è sempre professato innocente, sostenendo di essere stato al centro di accuse infamanti ed infondate nei suoi confronti.

LA LUNGA SCIA DI SANGUE SULLO IONIO – Dopo l’omicidio di Mario Mirabile, segue un bagno di sangue. Perdono la vita: Giovagnone De Cicco, Filocamo Gaspare, Antonio Russo e Luigi Lanzillotta. Tutte figure ritenute vicine a Cirillo. Una prima battuta d’arresto la onorata società coriglianese la subisce con le inchieste Big Fire – Set Up (2000). Con i coriglianesi in cella, gli zingari cassanesi prendono corpo. Gli Abbruzzese si alleano con la famiglia Pepe. Pepe Damiano è un santista di rispetto, è stato un uomo di Cirillo, si avvicina a Carelli che gli chiede una prova di fedeltà per cui gli ordina di sparare contro Luigi Lanzillotta. L’omicidio Lanzillotta avvenne il 9 gennaio del 1993. L’imprenditore di Cassano era ritenuto vicino al clan Cirillo rivale di Carelli. Fu assassinato nel salone del barbiere mentre si trovava sulla poltrona in attesa di essere rasato. Un sicario arrivò a bordo di una moto e lo freddò con due colpi di pistola. Carelli fu arrestato appena un mese dopo e non uscì più dal carcere se non due mesi prima della morte.

FRANCO PINO

Franco Pino

Ma torniamo a bomba all’omicidio Bergamini, non l’abbiamo certo dimenticato. Chi poteva “agganciare” il clan Cirillo o il clan Carelli? A Cosenza solo un uomo poteva farlo ed era Franco Pino, cosentino doc, uno degli alleati di ferro di Cirillo prima e di Santo Carelli successivamente. Nei suoi lunghi anni di pentimento (adesso, dopo oltre ventanni, non ha più lo status) ha parlato molto anche di Santo Carelli. Per esempio, ha raccontato ai pm della Direzione Distrettuale antimafia di Reggio nell’ambito del processo ‘Ndrangheta stragista, di un pranzo tra ‘capi’ in un villaggio turistico di Nicotera nel 1992. Alla ‘corte’ dei Mancuso, accolti da Luigi Mancuso, tra gli invitati Santo Carelli da Corigliano, Cataldo Marincola, Giuseppe e Silvio Farao per Cirò, Nino Pesce da Rosarno, un figlio di Paolo De Stefano per Reggio Calabria, Franco Coco Trovato boss della ‘ndrangheta in Lombardia, Franco Pino e Umile Arturi da Cosenza. Giusto per gradire…

Non c’è dubbio che si sia potuto muovere qualcosa nell’ambito della criminalità organizzata cosentina e ci sono più indizi che ci dicono che la famiglia Internò potesse avere rapporti di amicizia con esponenti del clan “Pino-Sena”. Nello specifico si tratta dei cugini della Internò (Roberto e Dino Internò), che risiedono a Santa Chiara di Rende laddove storicamente è nato e cresciuto Francesco Patitucci, il boss di Rende, che era stato tra i picciotti di Franco Pino. 

Ora che sappiamo che il movente dell’omicidio di Denis Bergamini è soltanto passionale, non serve essere profeti per capire che il “regista” dell’omicidio, certamente vicino alla famiglia Internò, cerca e ottiene un contatto con il magistrato inquirente e poi con il clan di Franco Pino, che individua nella Sibaritide, dove ormai comanda Santo Carelli, insieme al basista dell’omicidio di Denis, il luogo dove poter agire indisturbati. Per avere a disposizione un territorio nel quale fare quello che vuole, uccidere e rimanere impunito grazie alla “connivenza” della procura della Repubblica di Castrovillari.

Non gli servono killer. Gli serve un posto dove buttare il cadavere, un camion e un camionista dei tanti che passano in quella zona con il quale inscenare il suicidio, un carabiniere corrotto per fare rilievi-barzelletta e un pubblico ministero e un procuratore altrettanto corrotti per evitare che qualcuno scopra gli altarini. Il resto lo avrebbero fatto i depistaggi e qualche “amico” all’interno dei media e della città di Cosenza.

LE ACCUSE FARLOCCHE A FRASCA – Quanto al senatore Frasca, che aveva rotto le scatole smascherando la corruzione dei magistrati, la procura di Castrovillari e – guarda un po’ il caso – in modo particolare Ottavio Abbate gliela fanno pagare con gli interessi e lo accusano ingiustamente di avere ”concorso, nella qualità di candidato a competizioni elettorali amministrative e politiche, di parlamentare e di sindaco di Cassano, nelle associazioni criminali di stampo mafioso facenti capo ai boss Giuseppe Cirillo, Pasquale Tripodoro, Santo Carelli e Franco Pino”. Secondo le assurde accuse di Abbate, infatti, l’ex sottosegretario avrebbe rivolto ”richiesta di raccolta di voti” a Cirillo, boss di Sibari, e a Tripodoro, boss di Rossano: quest’ultimo pentito come Franco Pino. E avrebbe avuto ”rapporti di amicizia e commerciali” con Luigi Lanzillotta, legato ai due boss cosentini, assassinato, come abbiamo visto, nel ’93 a Corigliano Calabro. Inoltre, Frasca avrebbe ”contribuito sistematicamente alle attivita’ e agli scopi delle cosche capeggiate da Cirillo, Tripodoro e Pino, tramite reiterati incontri con gli stessi”. Accuse che si risolsero in nulla…

CONCLUSIONI

Ricapitolando: chi è il “regista” dell’omicidio Bergamini? Di sicuro è uno che conosce molto bene gli apparati dello Stato e, soprattutto, è sicuro, ma proprio sicuro, che nessuno mai possa risalire a lui. Fino a vent’anni fa eravamo in presenza del classico “delitto perfetto”. Ma qualcosa non ha funzionato.

Ora ci chiediamo: è mai possibile che lo stesso pubblico ministero che ha insabbiato il caso, sia stato per anni anche il presidente del Tribunale di Castrovillari salvo poi essere spostato solo dopo la riapertura del caso Bergamini? Tra l’altro nell’indifferenza generale?

In qualsiasi altro Paese civile, i tempi sarebbero stati maturi non solo per l’arresto di qualcuno ma anche per una sana ispezione del Ministero di Grazia e Giustizia. E invece come nella peggiore tradizione italiana ci sono “segreti di stato” che non si possono rivelare e così il procuratore Eugenio Facciolla è stato trasferito in extremis. Giusto il tempo per bloccare di nuovo la verità.