Onnipresenti & Indecenti, Boiardi & Boia

(Anna Lombroso per il Simplicissimus)

– A chi meglio che al dinamico Arcuri potrebbe adattarsi la definizione marinettiana di “simultaneista”, quella più arcaica di “ubiquo”?

Lui, il Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19, in quanto tale pusher di banchi a rotelle, di app, di mascherine, di vaccini, di tachipirina, le cui produzioni ha selezionato con quell’ingegnosa lungimiranza che gli deriva dall’incarico di Ad di Invitalia, con principeschi emolumenti, che perfino la scafata Corte dei Conti ha ritenuto esagerati, commisurato all’efficacia degli interventi realizzati dall’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.A., società partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia.

Una volta li chiamavano boiardi, oggi sbrigativamente potremmo definirli boia, visto che gran parte delle azioni intraprese da enti come Invitalia (o Cassa Depositi e Prestiti)  e gestite da faccendieri (come Arcuri) approfittano della fine ingloriosa di aziende nazionali per favorire l’infiltrazione  a norma di legge di multinazionali e colossi sfrontati e tracotanti che applicano le leggi economiche del colonialismo anche nei Terzi Mondi interni all’Occidente.

E difatti da un po’ anche prima del Covid che ha riportato alla ribalta un vecchio attore del varietà che era stato retrocesso a trovaroba o a cercare polli da spennare per finanziare l’opera dei pupi, gli elzeviristi del Sole 24Ore o del giornale unico della Gedi raccomandano una ripresa ardimentosa degli “investimenti” non solo come fattore a sostegno della domanda aggregata ma anche “come motore funzionale alla produttività di lungo termine e alla crescita potenziale”, combinando risorse pubbliche e risorse private. E meglio se, queste ultime, sono garantite dai bilanci statali “ospiti” e beneficati, sia pure con forme e diciture che le differenzino dai proibitissimi aiuti di Stato, concessi solo se cambiano nome grazie a stravolgimenti semantici graditi alle cancellerie.

E così anche se la radiosa visione cui guarda l’Esecutivo e la cui concretizzazione è appunto a affidata a questo poliedrico uomo della Provvidenza è quella di un Paese digitalizzato, dello sviluppo di infrastrutture e settori ad alto contenuto innovativo (ad esempio la banda larga ultraveloce) e che sappia “ridurre drasticamente le emissioni di gas clima-alteranti e migliorare l’efficienza energetica dell’economia”, come annunciò a Villa Pamphili Conte anticipando il suo Programma nazionale di riforma (Pnr), canovaccio del Recovery Plan, da offrire come atto di fede alla Commissione, tocca occuparsi anche di certi vecchiumi lasciati impolverarsi negli anni sotto strati di fuliggine tossica.

Così sia pure a malincuore, la Ministra del Lavoro si è piegata a definire “strategico per la crescita e l’occupazione il settore siderurgico e insieme ai colleghi Gualtieri e Patuanelli ha dialogato in teleconferenza con i Sindacati dei metalmeccanici sulle complesse questioni del gruppo Ilva oggi in locazione (propedeutica all’acquisto) ad Arcelor Mittal (riluttante a pagare il fitto dopo gli oltraggi subiti con la messa in discussione delle doverose immunità e impunità )  tramite la sua controllata AmInvestco Italy.

E ecco saltar fuori dal cilindro del prestigiatore come il proverbiale coniglio (il paragone è voluto a vedere l’ardimentosa  baldanza dimostrata nelle sue varie funzioni) proprio l’Arcuri stavolta con la casacca di Invitalia, che informando sui progressi ottenuti dalla trattativa che potrebbe portare la sua società nel capitale di AmInvestco, anche con quote di maggioranza, ha delineato la sua strategia per Taranto che punta al revamping dell’Altoforno n.5, uno dei maggiori d’Europa per capacità e ormai spento da anni, e dell’Altoforno n.1, tuttora in esercizio, e con l’acquisizione di 2 forni elettrici per conservare una capacità produttiva di 8 milioni di tonnellate annue, “in grado di mantenere gli attuali livelli occupazionali”, che non sappiamo se si riferiscano a prima o dopo la dinamica ristrutturazione prevista da Arcelor Mittal: oltre cinquemila licenziamenti (come previsto nel piano industriale a fronte della richiesta di 2 miliardi) anticipati dai tre di questi giorni e da 250 lettere di sospensione per gli operai che si sono macchiati del reato di “solidarietà”  .

Prende proprio uno stanco scoramento ad assistere alle acrobazie miserabili che compiono gli equilibristi in forza al  padronato imperiale. Si sa che Arcelor Mittal ha deciso di comprarsi quello che aveva definito un ferrovecchio unicamente per isolare e poi far morire un concorrente molesto dei suoi siti in Europa,  Dunkerque e Fos sur mer in Francia, si sa che per questo e grazie all’impunità concessale non intende investire in sicurezza, compatibilità ambientale e bonifiche, si sa che i cordoni della sua borsa sono talmente stretti da non sganciare nemmeno i quattrini del fitto.

Eppure Invitalia munificamente è disposta a entrare nel capitale di Aminvestco Italy, caricandosi della perdite e dei debiti che non ha prodotto senza pretendere che vengano ripianate dai responsabili.

Eppure pur diventando socio di maggioranza, forse per quella modestia che caratterizza il suo vertice o per non scontentare da subito il bizzoso partner, non ha stabilito in capo a chi verrebbe affidata l’effettiva conduzione. Eppure non ci sarebbe  stata alcuna previsione concreta e fattibile  sui volumi produttivi cui si aspira rispetto a quelli attuali (meno di 4 milioni di tonnellate e con un sanguinoso ricorso  alla cassa integrazione), se l’ipotesi di riportarla ai desiderabili  8 milioni si scontra con gli interessi concorrenti dell’avido socio e non chiarisce quali sarebbero poi le relazioni con gli atri produttori di acciaio italiani.

Eppure se fosse vera la promessa di mantenere i livelli occupazionali, che fine farebbero i fisiologici “esuberi”  estromessi dall’acquisizione dei forni elettrici?

Eppure non avrebbe dovuto essere preliminare alla promozione di negoziati, la predisposizione di una strategia per la messa in sicurezza, la bonifica a carico dei responsabili, il risarcimento, tutte azioni che si dovranno obbligatoriamente perseguire quale che sia il destino della fabbrica e della città martire che ha patito il suo destino?

Devo fare autocritica, per anni ho scritto convintamente che il futuro dell’Ilva non poteva che essere quello della statalizzazione. Ma era davvero un’attesa fideistica e illusoria, non era un’utopia era semmai un tranello acchiappacitrulli nel quale come altre anime belle era caduta con le scarpe, pensando davvero che questi “servitori dello Stato”  dalle loro scrivanie, dai loro uffici con le piante di ficus, dopo aver regalato la pubblica Italsider ai Riva, avergliela tolta per affittarla ai Mittal, diventassero i demiurghi capaci di conciliare profitto, tutela dell’ambiente e garanzie per i lavoratori.

Era davvero una chimera non ritenere che la soluzione al problema stesse nel far tornare in mano pubblica un’attività strategica così incautamente privatizzata, perché davvero era quella la “soluzione”, ma convincersi che quel processo potesse essere portato avanti da un ceto di lestofanti, di inetti, di criminali in guanti gialli, che praticano l’assistenzialismo a beneficio dei ricchi perché diventino sempre più ricchi e spietati e noi sempre più poveri e umiliati.