Pagati 4 centesimi a riga, minacciati e insultati: giornalisti sempre più precari. Da Alessandro Bozzo a tutti gli altri

Pagati 4 centesimi a riga, minacciati e insultati: i giornalisti in Italia sono sempre più precari

Il numero di contrattualizzati continua a calare, come le retribuzioni per i freelance. E la qualità dell’informazione e della democrazia ne risentono. Mentre politica e criminalità approfittano della debolezza del sistema

Anticipiamo qui un estratto del libro “Quattro centesimi a riga, morire di giornalismo” (Zolfo editore) di Lucio Luca​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

Dunque, sono passati quasi dieci anni. Dieci lunghissimi anni, tremila e cinquecento giorni, da quella maledetta notte di marzo del 2013 nella quale un giovane cronista di provincia, Alessandro Bozzo, decise di farla finita con una vita da precario senza futuro, ostaggio di editori senza scrupoli in una terra, la Calabria, che spesso sembra dimenticata da Dio.

In tutto questo tempo Alessandro purtroppo non è stato l’unico giornalista a fare questa scelta estrema. Ce ne sono stati altri, stremati dall’attesa, dall’incertezza, da quei pochi soldi che non bastano mai, dall’impossibilità di costruirsi una casa, una famiglia. In Puglia, in Trentino, in Veneto. Sì, persino nelle ricche regioni del Nord Est. Perché mica è solo al Sud che migliaia e migliaia di giornalisti fanno la fame. Figuriamoci. Ormai funziona così dappertutto, lo dicono i numeri, sempre più impietosi, che le organizzazioni sindacali snocciolano anno dopo anno. (…)

Dal 2014 al 2021 i lettori dei quotidiani nel giorno medio sono diminuiti del 40,81 per cento: da 19 milioni e 351 mila al giorno siamo passi a 11 milioni e 453 mila. Quasi otto milioni di persone, un numero che fa impressione. E ancor più desolante è il fatto che, nello stesso periodo, sono più che dimezzati i lettori di età inferiore ai 34 anni, ormai appena un quinto del totale. (…)

Va meglio, naturalmente, nel digitale visto che negli ultimi sette anni si è triplicato il numero di chi si informa con il cosiddetto “sfogliatore”. Siamo passati dai 587 mila del 2014 a un milione e mezzo del 2021. Un aumento che però non basta certo a bloccare l’emorragia complessiva. Anche perché se in edicola un giornale costa un euro e mezzo circa, sull’Ipad scende di oltre due terzi. E quindi per le aziende editoriali è un salasso niente male.

E così tra prepensionamenti – quando va bene – e licenziamenti di massa, il giornalismo è praticamente defunto. Lo dimostra il fatto che ci sono zone dell’Italia dove i giornali di carta non arrivano nemmeno più e le edicole sono un lontano ricordo. (…)

Secondo l’Inps, in Italia operano circa 45 mila giornalisti con contratto atipico o liberi professionisti, a fronte di appena 15 mila coperti da un contratto di lavoro dipendente (dati 2019). E tra i freelance, il 45 per cento non riesce a fatturare cinquemila euro lordi l’anno. D’altra parte, anche molti giornali storici hanno tagliato i compensi dei collaboratori, arrivando a proporre 7 euro per un articolo. Quando va bene, aggiungerei. Sul web, poi, la cifra scende ancora. Oggi il giornalista è un rider dell’informazione. I giornali sono diventati come Glovo o Just Eat, ma rispetto a chi ci porta da mangiare a casa, i cronisti non prendono nemmeno la mancia e sui social vengono spesso insultati come fossero degli appestati.

«Nel 2011, con un contratto di collaborazione a progetto, venivo “retribuito” dall’allora editore di Calabria Ora Pietro Citrigno 0,04 euro a riga, quattro centesimi insomma», ha scritto in un blog uno dei “biondini” con i quali ogni giorno lavorava Bozzo. «Il secondo contratto che ho avuto era simile ma con retribuzione fissa di appena 100 euro mensili. Ho continuato a collaborare con altri quotidiani locali e periodici, con retribuzioni occasionali e minime o, in molti casi, gratuitamente. Per fortuna ho smesso in tempo, altrimenti quello che è capitato ad Alessandro sarebbe potuto succedere anche a me».

Emmanuel Raffaele Maraziti, questo il nome del collega da quattro centesimi a riga, ha raccontato che la sua storia, come quella di migliaia e migliaia di altri aspiranti giornalisti, rappresenta un «problema sistemico» che porta dritto, non solo alla scomparsa di una professione essenziale, ma al disastro attuale dell’informazione e, quindi, a una forte distorsione della democrazia. Non è certo un caso se nel 2016, a fronte di oltre 112 mila persone iscritte all’Ordine dei giornalisti, meno di 30 mila erano professionisti (che, di solito, un contratto «vero» riescono a portarlo a casa) mentre ben 75 mila erano pubblicisti. Che, tradotto, significa precari. «I numeri, insomma – conclude Maraziti – ci raccontano che la professione di giornalista sta scomparendo, distrutta dalla precarizzazione e dal mercato senza regole, che non permette di farne una professione vera e di svolgerla con la necessaria serenità».

Difficile dargli torto. Oggi, ogni quattro giornalisti attivi in Italia, tre sono precari. Da anni le assunzioni sono bloccate, i giovani sono sempre più destinati a una condizione di precariato a vita. E la memoria non può che andare a Brindisi, a Paolo Faggiano, collaboratore di una testata locale che a 41 anni – poco prima della vicenda Bozzo – aveva lasciato una lettera alla madre impiccandosi a un albero del suo giardino. Era precario, appunto, non riusciva a trovare una stabilità malgrado lavorasse nell’informazione da quasi vent’anni. «Drammi umani come questo – scrissero i colleghi del sindacato dei giornalisti pugliesi – ripropongono in tutta la loro tragica attualità i problemi del precariato diffuso, che priva di ragionevoli certezze sul futuro umano e lavorativo migliaia di giornalisti».

Ecco perché Alessandro Bozzo si è ucciso, ecco perché la sua storia non poteva restare nell’oblio. Malgrado qualcuno avesse puntato, fin dall’inizio, a farla passare per un dramma familiare, una vicenda privata e niente più. Alessandro non è stato il primo e, purtroppo, nemmeno l’ultimo. E se negli ultimi dieci anni le condizioni sono letteralmente precipitate, non oso pensare cosa ne sarà di questa professione fra altri dieci o vent’anni. Ammesso che esisterà ancora.

C’è il precariato, certo, ci sono poi le querele temerarie, il bavaglio con cui i potenti sfruttano la condizione di instabilità di molti giornalisti. Strumenti intimidatori con i quali si tenta, e molte volte si riesce, a mettere il silenziatore alle notizie scomode minacciando i cronisti con infiniti e costosi processi e comprimendo di fatto il diritto dei cittadini di essere informati. Il rischio sempre più diffuso, e assai comprensibile, è che il giornalista da quattro centesimi a riga – o poco più – prima di qualsiasi inchiesta si faccia la fatidica domanda: «Ma chi me lo fa fare?». E, alla fine, si autocensuri per evitare di spendere una barca di soldi in avvocati e giustizia negata.

Combattere il precariato deve – dovrebbe – essere un obiettivo non solo dei giornalisti ma di un Paese intero. Perché la buona informazione è – dovrebbe essere – uno dei diritti costituzionali più importanti e che va riconosciuto a tutti i cittadini.

Infine il capitolo delle minacce della criminalità a chi, malgrado tutto, non si volta dall’altra parte e continua a scrivere tutto quello che riesce a scoprire. Ossigeno, l’associazione di Alberto Spampinato, fratello di uno dei tanti cronisti siciliani uccisi dalla mafia, tiene il conto da anni. Nel 2020, per dire, in Italia i giornalisti minacciati sono stati 495, il 26 per cento donne. Numeri in aumento questi, a differenza di tutti gli altri indicatori negativi. Come dire, meno si vende e più i criminali si sentono autorizzati a intimidire i cronisti che si occupano di loro.