Politiche 2022. La “sinistra diffusa” non trova rappresentanza

(DI DONATELLA DI CESARE – Il Fatto Quotidiano) – Agli occhi di un osservatore che dall’esterno considerasse partiti e protagonisti di questa campagna elettorale agostana l’Italia potrebbe sembrare una nazione sbilanciata fortemente verso destra. Quasi un’Ungheria in nuce – lo spauracchio che oggi viene spesso agitato. Ma chi gira quotidianamente per le vie e le piazze della penisola fa un’esperienza del tutto diversa. Dalle organizzazioni umanitarie ai sindacati, dal volontariato all’attività territoriali, dalle cooperative all’associazionismo, per non parlare dei movimenti per la pace e delle migliaia di iniziative civili, culturali, ambientali che costellano ogni Regione, l’Italia appare piuttosto un Paese di sinistra. E in effetti lo è, sin nel profondo dei contenuti condivisi, delle idee che sono patrimonio della sua tradizione umanistica. Nessun’altra nazione europea lo è in egual misura. In breve: c’è qui una “sinistra diffusa”, che non solo ha resistito in tutti questi anni, ma che, anzi, s’infervora, si appassiona, partecipa come può, cerca di informarsi, lotta a proprio modo, spesso spontaneamente e, com’è inevitabile, in luoghi circoscritti. Perché non c’è una rete nazionale, una organizzazione.

Che cosa voterà questa “sinistra diffusa”, se non la maggioranza, certo buona parte del Paese? Molti si asterranno, qualcuno si costringerà a scegliere Pd con il vecchio argomento della dispersione, qualche altro punterà sui 5S depurati dagli elementi di destra (come mostra l’indagine del Max Planck presentata da Lucio Baccaro), qualche altro ancora opterà per la Si di Cucchi e Soumahoro (che figureranno insieme a Cottarelli) e infine ci sarà chi darà il proprio voto ai candidati di Unione popolare. Quel che importa è che la “sinistra diffusa”, che avrebbe potuto essere maggioritaria, viene consegnata alla sconfitta.

La frammentazione e la mancanza di rappresentazione dello spazio pubblico sono problemi datati e in sé superabili, non cause, bensì sintomi del fenomeno. La novità di queste elezioni è l’epifania del Pd sotto la catastrofica direzione di Letta. Epifania del suo ruolo, della collocazione, del fine. Un partito ormai “di centro”, diceva bene su queste colonne Roberto Esposito. Ma si dovrebbe aggiungere: un partito impolitico, la cui parola d’ordine è “amministrazione” e la cui funzione è il presidio della tecnica come governo e del governo tecnico. Un non-partito, che non si fa più voce di una parte, e perciò ormai una forza di vertice, un presidio di élite, un cartello di tecnici e amministratori inseriti nelle istituzioni (ma non per questo istituzionali).

Si sa da tempo che il Pd non persegue una politica di sinistra e che, anzi, la parola stessa “sinistra” è diventata imbarazzante e impronunciabile per i suoi dirigenti allettati dalla formula del “riformismo liberale”, a ben guardare solo un sinonimo di governance amministrativa. Non è un caso che qualche governatore di Regione minacci di diventare il nuovo segretario. La novità sta invece nella fine di ogni illusione sul Pd. C’era ancora chi nostalgicamente vedeva nel Pd quella “comunità” che, anche solo per diritto ereditario, avrebbe dovuto essere il luogo di future, necessarie sperimentazioni per ricostruire la sinistra. Oggi è evidente che questo cartello di amministratori, impolitici ed elitari, non è quel luogo. Emergono semmai i rischi di una forza della “governance responsabile” che, mentre criminalizza o addomestica chi è alla propria sinistra, imbarca ancora naufraghi della prima Repubblica come Casini.

Dopo queste elezioni, qualsiasi sarà l’esito, la “sinistra diffusa” dovrà articolarsi in comunità. E dovrà tentare, con un lavoro profondo di analisi, di costruire una nuova formazione in grado di dar voce alla necessaria sinistra del XXI secolo.