Politiche 2022. Salvini disposto a perdere pur di non far vincere Giorgia Meloni

(Salvatore Merlo – Il Foglio) – Si può persino immaginare che Matteo Salvini a Cernobbio la settimana scorsa l’abbia fatto apposta a parlare di Russia e delle sanzioni inique al caro vecchio Putin, a esporre così Giorgia Meloni e il centrodestra al sospetto e al sopracciglio sollevato d’una platea d’imprenditori e membri dell’establishment. A meno di un mese dalle elezioni.

“E’ mosso da un’invidia puerile”, azzardano alcuni collaboratori della leader di Fratelli d’Italia. Ad ascoltare loro, e anche certi leghisti del Veneto e della Lombardia, viene fuori il ritratto di un Salvini spinto dal desiderio inconscio e affascinante, quasi da kamikaze, di chi gioca sfacciatamente a perdere pur di rovinare la festa a un nemico, a un avversario, a qualcuno che gli risulta insopportabile per ragioni che ormai forse travalicano i naturali confini della politica e si fanno quasi psicanalitiche.

Non bisogna indulgere nelle spiegazioni psico-arzigogolate, è vero. Eppure sul serio raccontano che quando Salvini osserva Meloni con l’espressione di chi ha i peli dentro la bocca e non riesce a scacciarli, quando in privato ne parla mordendone quasi il nome, vede soltanto qualcuno che s’è infilato nelle sue scarpe, nel suo successo, e gli ha reso l’esistenza sballottata e difficile: la donna minuta che lui a lungo aveva tentato di far sparire dalla politica, anzi la ragazzina che lui considerava già una pratica archiviata, e che invece adesso si è appropriata dei suoi voti, dei suoi applausi e del suo progetto politico. Per Salvini, Meloni sta infilata nella leadership della destra italiana come nel pastrano di un altro. Il suo. Com’è potuto accadere?

Così, domenica 4 settembre, l’immagine di Giorgia Meloni che ascoltando Salvini sulla Russia si porta le mani ai capelli e poi le appoggia sugli occhi in un movimento insieme di stanchezza e di concentrazione, è inevitabilmente sembrata a chiunque non soltanto la rappresentazione teatrale d’un dissenso rivolto alle assai note inclinazioni filo putiniane del suo alleato, ma quasi il gesto rassegnato d’una consapevolezza ultima e ormai sedimentata, la certificazione di una convivenza tramutata in condanna.

Lei quel giorno aveva bisogno di mandare un semplice messaggio di coesione a quanti nell’establishment economico e non solo la osservano chiedendosi se davvero potrà governare l’Italia. Ma dopo le parole di Salvini si è trovata invece costretta a dover sottolineare ancora una volta una distanza fin troppo avvertibile dalla Lega, dal partito con il quale ben presto potrebbe trovarsi a Palazzo Chigi.

“La coalizione è compatta”. Questa bella favola è necessaria a tutti, fa parte delle mezze verità che tengono in piedi il centrodestra e anche il centrosinistra, come il buon vecchio motto “il delitto non paga”. Anche se basta osservare il consorzio umano per rendersi conto di come stiano davvero le cose. E allora lo ha fatto apposta Salvini a rovinarle la festa? Chissà. Se lo deve essere chiesto anche lei, e più di qualcuno intorno a lei pensa proprio che Salvini l’abbia fatto di proposito. […]

Piccoli sgarbi, dispetti, frustrazioni, manifestazioni di impotenza e masochismo di fronte a un rovesciamento ormai insovvertibile degli equilibri e dei rapporti di forza. Fino all’autolesionismo di Cernobbio, probabilmente. Un divertimento nel quale Salvini si bea, come il lebbroso che si ficca le unghie nelle piaghe per sentirle meglio. Chi può dirlo? […]

I sondaggi della Lega sono tutti in calo, costante. Senza appiglio apparente. E più Salvini si agita, più indossa la maschera del pacifista amico dei russi invasori, più precipita. Allora ecco le mani di Giorgia Meloni tra i capelli, e poi sugli occhi. Questa è l’immagine, questo il gesto: un gesto lampante che contiene molti gesti. […]

Il Viminale? “Meglio lì che in qualunque altro posto: fa meno danni”. Già c’è chi se lo immagina impegnato nel controcanto quotidiano, Salvini. Come faceva con i grillini nel mitologico governo del cambiamento. Ogni giorno un botto, un petardo, un salto nei cerchi di fuoco. Coinvolto nell’impresa disperata di recuperare i fasti d’un tempo elettoralmente scaduto. Inconsolabile per il giorno fatale in cui il mondo si spense di colpo in quel di Cervia, al Papeete del suo scontento, come se qualcuno avesse girato un interruttore: clic. Addio Lega nazionale, addio “prima gli italiani”, si ritorna al vecchio nord, alla Padania, al posto dove sono rimasti i voti evaporati al centro e al sud.

Come dice Vittorio Feltri: “Salvini è riuscito a portare la Lega dal 4 al 34 per cento. E quando uno produce un miracolo così, pensa di essere Padre Pio. Ovviamente non è vero. Però lui non lo sa. Quindi pensa: come sono arrivato al 34 per cento una volta posso farlo di nuovo. Di conseguenza le prova tutte. E fa una minchiata dietro l’altra”. L’illuso che non riesce a divorare il mondo finisce per divorare se stesso. Un composto instabile che sfuggirebbe all’alambicco del più cauto dei tecnici di laboratorio. Come governarlo uno così?

Non tutti sanno che Meloni in privato lo chiama “il situazionista” e che all’incirca considera Salvini un pasticcione abbastanza inaffidabile. Anche se non personalizza troppo, la leader di Fratelli d’Italia. Non lo detesta infatti, come fanno tanti altri suoi compagni di partito. Né tantomeno vuole distruggere la Lega e occuparne lo spazio politico. Non perché Giorgia Meloni sia buona d’animo, ma semplicemente perché sarebbe inutile e illogico fare guerra alla Lega. La parola d’ordine non è incassare tutto, ma dominare la situazione.

Secondo un sondaggio pubblicato il 7 settembre da Demos, sul Gazzettino, Fratelli d’Italia avrebbe già doppiato la Lega in Veneto: 30,5 per cento contro 14,4 per cento. Eppure la strategia non è quella dell’annientamento o dell’annessione. E questo malgrado Salvini invece quand’era al massimo splendore, conquistata la vetta del 32 per cento alle elezioni europee, abbia tentato prima di assorbire (dal 2015) e poi di distruggere (dal 2018) sia Meloni sia Fratelli d’Italia, procedendo con la sicurezza di un elefante che svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti, impegnandosi a tappeto per svuotare consigli regionali e comunali, da Roma a Latina, saccheggiando simboli e santuari della destra ex missina come il sindacato Ugl, aiutato da seconde e terze linee della ex Alleanza nazionale come Claudio Durigon, gente fattasi da un giorno all’altro leghista di prima fila in tutto il centro e il sud. […]

E allora bisogna proprio immaginarselo cosa pensa, e cosa dice Salvini di Giorgia Meloni, oggi, vedendosela danzare di fronte al muso, più viva che mai, come un moscone che lui pensava di avere schiacciato sin da quando ne aveva voluto certificare il ruolo subalterno ai tempi in cui l’aveva costretta alla candidatura perdente a sindaco di Roma, quando le aveva promesso che lui avrebbe fatto il sindaco di Milano. “Il nostro è un proconsolato”. Come no.

Era il 2016. Dopo averla convinta a candidarsi con il solo obiettivo di impedire la vittoria di Alfio Marchini, candidato da Berlusconi, Salvini s’impegnò ad alimentare una campagna elettorale in cui il protagonista era solo ed esclusivamente lui. Infine, addirittura, tirò fuori una vecchia battaglia settentrional-leghista che per Meloni fu il colpo di grazia: far pagare ai romani il pedaggio sul Raccordo anulare. Figurarsi, ovviamente Fratelli d’Italia perse le elezioni. Fabio Rampelli, vecchio missino di esperienza, prese da qual momento a chiamarlo “er bugia”.

Poi ci fu anche l’umiliazione del 2018, mentre si doveva comporre il primo governo Conte con Luigi Di Maio. Nelle ore decisive Meloni aveva chiuso un patto d’onore con Salvini. L’ennesimo. “Siamo d’accordo”, diceva lei. “Entriamo al governo. Parlane con Di Maio. Ma devi farmi una promessa solenne: o stiamo dentro insieme o stiamo fuori insieme”. E Salvini: “Te lo prometto“.

Com’è andata a finire lo sanno tutti. Niente governo per Fratelli d’Italia. Ed è stata la fortuna di Meloni. Il leghista la voleva cancellare dalla faccia della terra, e invece l’ha salvata. Condannandosi. Anche per questo forse le parole, a Salvini, adesso gli escono fuori come sputi, con una foga insensata, mentre la osserva rediviva tra gli applausi degli imprenditori di Cernobbio, mentre la vede riscuotere non solo quella simpatia d’ufficio che i giornali di centrodestra tributano sempre a ogni loro beniamino (anche a lui) ma pure la curiosità di alcuni giornalisti e intellettuali che di destra non sono, quelli che a Salvini la curiosità l’hanno sempre negata, sul Corriere della Sera e persino talvolta su Repubblica. […]

Ecco allora cosa non vuole vedere Meloni, a Cernobbio, ecco da cosa si protegge quando si mette le mani tra i capelli e sugli occhi. Ecco l’anatomia di un istante: lo straziante e minaccioso precipitare verso il nulla di un politico e alleato che non sa darsi pace, e che le imputa tutte le sue disgrazie perché lei rappresenta e incarna con la sua sola esistenza, con le sue parole e il suo respiro, il fallimento della Lega nazionale e del progetto che aveva animato la fierissima grandeur di un vispo ragazzo del Giambellino fattosi leader nazionale. E’ proprio per questo che Salvini ora diventa “un pericolo per gli altri e per sé stesso”, come pensa Meloni.

Tuttavia per lei quest’uomo corroso resta malgrado tutto un fatto della politica da gestire e trattare pur nel marasma verso un approdo di stabilità e di ordine interno. Dissimulando, se possibile. Con distacco, se ci si riesce.  Getto vegetale di antica pianta missina, vecchia scuola, Meloni ha interesse a una Lega ridimensionata, ma non annientata: far vendetta degli sgarbi subiti non è politica, nella migliore delle ipotesi è un romanzo di Dumas. Nelle peggiori è un pollaio.

Certo un pomeriggio di gennaio 2022, a casa di Berlusconi, nella villa sull’Appia antica, Meloni lo ha quasi preso a male parole, Salvini, mentre si sentiva dire con un tono d’ipocrisia per lei insopportabile “beh, Giorgia, sei stata pur sempre tu a rompere l’unità della coalizione non entrando nel governo Draghi”. In quell’istante lei prese a fissarlo con il ghiaccio dei suoi occhi blu sgranati, come per volerlo schiacciare sotto il peso insopportabile di tutto quell’azzurro. Ma alla fine quello che conta, per lei, è che  i dati della sgangherata alleanza con la Lega e con Forza Italia quadrino tra loro, malgrado Salvini: lo schema berlusconiano del 1994 va tenuto in piedi a ogni costo, perché ancora funziona.

E dunque Meloni pianifica e favorisce il ritorno della Lega alla sua dimensione classica, al nativismo settentrionale di Umberto Bossi e ai suoi insediamenti del nord, esattamente quello che predica ormai anche Giancarlo Giorgetti. Perché su questo agitato centrodestra, che tuttavia lei non ha ancora conquistato in realtà, Meloni vorrebbe esercitare una leadership persino strategica.

Per questo discute spesso, preoccupata, non soltanto della Lega e di Salvini, ma anche del destino di Forza Italia, insomma del dopo Berlusconi: qualcuno anche dopo il Cavaliere dovrà pur continuare a rappresentare l’area di centro all’interno di questa alleanza trentennale di cui lei vagheggia altri trent’anni di futuro. Sono due o tre milioni di voti, quelli di Forza Italia, non tanti forse, ma servono a vincere proprio come quelli della Lega al nord, e di sicuro non li si può lasciare a Carlo Calenda.