Ponte sullo Stretto scempio italiano (di Massimo Fini)

(Massimo Fini – massimofini.it) – Siccome le disgrazie non vengono mai sole adesso, come non ci fosse altro cui pensare, torna all’onor del mondo il progetto per la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina che sembrava ormai sepolto. Lo hanno rilanciato, e chi altro poteva essere, Forza Italia e Fratelli d’Italia in alcune loro recenti convention.

Col governo Draghi è stato creato un apposito “ministero della Transizione ecologica”, diretto dal cinquestelle Roberto Cingolani, che ha assorbito il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare. Ora, non si può essere ambientalisti e contemporaneamente continuare a rovesciare tonnellate di cemento sul nostro territorio quando già ci siamo rovinati la quasi totalità dei 3.600 chilometri di coste di cui gode, ma forse sarebbe più esatto dire godeva, il nostro Paese che non a caso era noto come il “Bel Paese”. Non si tratta solo di una questione estetica, come potrebbe essere quella posta dal sindaco di Melendugno che non tollera che due grosse navi, a 400 metri dalla battigia, impegnate in un lavoro serio e temporaneo (lavori all’imbocco del gasdotto che porta metano dall’Azerbaijan), gli turbino momentaneamente la vista del mare. È anche una questione economica.

Prendiamo la Riviera ligure, sia quella di Ponente che di Levante. Nell’Ottocento e nel Novecento fino agli anni Sessanta era frequentata da un turismo ricchissimo, prevalentemente di inglesi e americani a Ponente, di russi, prima dell’avvento del comunismo, a Levante. Era un turismo d’élite, e spesso diveniva anche stanziale, che spendeva e si guardava bene dallo sconciare con costruzioni assurde la bellezza della Riviera, perché proprio da quella bellezza traeva il suo piacere. Chi scenda dalla stazioncina di Sant’Ilario, quella cantata da De André in Bocca di rosa, per raggiungere la passeggiata di Nervi, capirà quel che dico.

Ancora negli anni Cinquanta, prima del boom, Celle, Varazze, Spotorno, Noli, Varigotti, Finale, erano deliziosi paesini di pescatori. Alle cinque del mattino potevi andare a vedere tirare le reti o, la sera tarda, assistere allo spettacolo delle lampare al largo. E i liguri rimangono nell’animo dei pescatori, sono troppo “stundai”, chiusi, spigolosi per avere un’attitudine che sappia accogliere con le dovute maniere i turisti come fanno invece i romagnoli che pure hanno un mare solo per finta perché devi fare almeno trecento metri per arrivare dove non si tocca. Oggi la Riviera da Sestri Levante a Ventimiglia è tutta una lunga striscia di cemento frequentata da un turismo cheap il cui obiettivo è solo quello di spendere il minimo possibile e spesso di evitarla a favore di altri lidi. Negli anni Settanta, la Fiat regalava ai suoi pensionati delle abitazioni a Loano o a Borghetto Santo Spirito da dove, torcendosi il collo, si poteva vedere il mare di sguincio. Quei pensionati hanno preferito lasciar vuote quelle case e andarsene altrove. Si sono salvate solo le Cinque Terre perché gli amministratori e i cittadini di quei paesi sono stati i primi a capire l’antifona e a rifiutare che l’autostrada gli passasse proprio a ridosso. E oggi le Cinque Terre sono meta di un turismo ricco ma non devastante.

Intendo dire qui una cosa banale: anche la bellezza è un bene economico. Ma va rispettata. È il paradosso, segnalato da Hirsch, dei “beni indivisibili”: di una casetta solitaria in montagna si può godere, se si aggiungono altre cento casette tutte perdono di senso.

Ma torniamo al Ponte sullo Stretto. Noi non dovremmo puntare sulle “grandi opere”, ma sulle piccole perché le prime contengono insidie a volte imprevedibili. La storia dovrebbe insegnarci qualcosa. Nel 1970 Nasser fece costruire la diga di Assuan per dare l’elettricità all’Egitto. Intenzione senza dubbio lodevole. Peccato che la diga abbia sconvolto quelle due famose tracimazioni del grande fiume che, tracimando dall’una e dall’altra sponda, concimavano in modo naturale, per chilometri, il terreno. Oggi se voi prendete un piccolo aereo e risalite il Nilo fino ad Assuan vedete che la parte “verde”, concimabile, è ridotta a non più di cinquecento metri. Risultato: la popolazione ha dovuto abbandonare quei terreni divenuti aridi da fertili che erano e rifugiarsi al Cairo nel cimitero dei Mamelucchi dove attualmente vivono, nella più disperata delle condizioni, tre milioni di persone.

Ma lasciamo stare un’opera gigantesca come la diga di Assuan e concentriamoci su varianti di dimensioni molto minori. Negli anni Ottanta andavo spesso in Calabria per presentare un libro o tenere una conferenza. Vi avevo degli amici. Anche per evitare di mettermi a pranzo con loro, che cominciano alle due del pomeriggio e finiscono alle sei, mi facevo portare sulla costa ionica per fare un bagno. Ci bastava allontanarci pochi chilometri a est di Reggio per raggiungere spiagge bellissime. Abbastanza di recente ho chiesto a quegli stessi amici di farmi il solito favore: portarmi al mare (loro se è novembre o dicembre si guardano bene dal fare il bagno, per un milanese la cosa è diversa). Bene, ci sono voluti una trentina di chilometri per trovare una spiaggia che non fosse un cumulo di sassi. Ho chiesto ai miei amici che cosa fosse successo. “Mah, sai, a est di Reggio hanno costruito un porto”. “Bene, andiamolo a vedere”. Era un piccolo porto turistico, ma era bastato per rovinare trenta chilometri di costa. Si può facilmente immaginare che cosa farebbe un ponte progettato su tre campate, sconvolgendo tutte le correnti dello Stretto.

Il Ponte sarebbe un regalo colossale sia alla mafia siciliana che alla ’ndrangheta calabrese, che non aspettano altro. Non è certamente un caso che quel progetto faraonico sia caro ai ‘berluscones’ di tutte le risme.

Ma il Ponte non piace né ai calabresi né ai siciliani, i cittadini normali intendo. Per una ragione pratica. Per salire fino al Ponte, o discenderne, ci si mette più tempo che a passare lo Stretto in traghetto. E per una ragione psicologica, esistenziale. I calabresi dicono: “Noi siamo abituati da sempre ad avere di fronte un’isola”. I siciliani dicono: “Noi siamo abituati da sempre ad avere di fronte il Continente e non ci piace per nulla avere questa continuità territoriale”.

Quindi è ipocrita e strumentale bacchettare gli ambientalisti, e in particolare i 5stelle, bollandoli come uomini del “niet” sistematico sulle tracce del ministro degli Esteri sovietico Andrej Gromyko. Ci sono dei “niet” irragionevoli dovuti a pregiudizi spesso politici, come quello del sindaco di Melendugno, e ci sono dei “niet” che cercano di conservare o, per meglio dire, restituire all’Italia il suo ruolo storico di “Bel Paese” senza doversene fuggire verso lidi più o meno esotici che non conoscono il connubio, proprio dell’Italia e forse unico al mondo, di storia e bellezza.