Reggio 70, la città si ribellò alla spartizione della Calabria decisa dall’asse Catanzaro-Cosenza (di Giuseppe Agliano)

di Giuseppe Agliano

La memoria inizia ormai a sbiadire, i reggini però sono ancora sensibili alle emozioni che 50 anni fa riuscì a suscitare la “Rivolta di Reggio Calabria”, tanti ancora ricordano e testimoniano quanto accadde in quel periodo. Risalire alle origini di quella sommossa popolare, guardare cosa sia cambiato dalla realtà di allora è il modo ideale per comprendere i sentimenti e la rabbia di quei giorni. Si tratta di un periodo storico che bisogna considerare come un valore per l’intera nostra comunità, da trasmettere alle generazioni future, come esempio di una dignitosa reazione da parte della città ad un grave torto subito.

La Rivolta rappresenta il più vasto moto popolare della storia repubblicana italiana, la prima Rivolta ”identitaria” d’Europa. Tutto ebbe inizio il 14 luglio 1970, in occasione del primo sciopero generale indetto per contestare la decisione del governo che indicava Catanzaro quale capoluogo della Calabria, e dura, con varia intensità, fino al settembre 1971 con strascichi che arrivarono al 1973 ma, le sue conseguenze si protrassero per molto tempo.

Il motivo scatenante della Rivolta fu, solo in apparenza, la sottrazione del capoluogo, tuttavia, le ragioni non possono essere ridotte ad una semplice questione campanilistica o, come si disse, di “pennacchio”. Ciò che la città rivendicava era considerato un diritto inalienabile, che derivava da una storia millenaria, consapevole che il rischio era quello di perdere l’ultimo treno in direzione dello sviluppo.

Reggio era da tempo una potenziale polveriera, per questo motivo, la ribellione dei reggini non fu solo un’esplosione di furia politica, ma prima di tutto un rigurgito di disagio sociale con un Popolo che sentiva forte la sensazione di essere stato preso in giro, per l’ennesima volta, dal governo centrale, che ora la voleva pure scippare del titolo di capoluogo di regione, assecondando la “spartizione” della Calabria decisa nel corso di una cena in un ristorante romano, dai maggiorenti politici del tempo che, costituendo l’asse cosentino-catanzarese, esclusero Reggio da ogni possibilità di rivendicazione.

Il cosentino Giacomo Mancini, Ministro dei Lavori Pubblici e Segretario del Partito Socialista, il cosentino democristiano Riccardo Misasi, Ministro del Commercio con l’Estero, e il democristiano catanzarese Ernesto Pucci, Sottosegretario al Ministero degli Interni, tra una amatriciana e un abbacchio, decisero che Catanzaro sarebbe diventato il cuore burocratico della Calabria con l’assegnazione del Capoluogo di regione; Cosenza sarebbe diventata il polo culturale regionale con l’istituzione dell’Università; Reggio sarebbe divenuta area industriale, con gli insediamenti siderurgici e chimici. Una vile presa in giro, una tragica “supercazzola” perché tutti sapevano, anche loro ovviamente, che la siderurgia e la chimica andavano incontro ad una grave crisi, tanto che problemi si erano potuti già riscontrare nel quarto centro siderurgico di Taranto.

Tutta la stampa lo ammise successivamente, anche quella attestata su posizioni di dura condanna, tanto che il Presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Iacopino, nel corso di un convegno in occasione del 40° anniversario, sentì il bisogno di chiedere scusa alla città. Al tempo però, al silenzio dei governanti, si affiancò quello della tv di Stato e della stampa nazionale, cui seguirono campagne denigratorie diffusione di false notizie, che contribuirono ad aumentare la rabbia della popolazione. I telegiornali non parlavano di ciò che succedeva a Reggio o tendevano a minimizzarlo, gli inviati dei quotidiani, spesso costretti anche dai loro direttori, descrivevano una realtà che nulla aveva a che vedere con quelli che erano i fatti reali.

Le notizie che trapelarono sul territorio nazionale, furono abilmente pilotate in ottica tranquillizzante da un governo che continuava a ripetere che tutto era pressoché risolto, che sarebbe stata solo una questione di giorni e a Reggio sarebbe ritornata la calma. Quando poi non fu più possibile abbindolare l’opinione pubblica, ecco servita la carta delle “gravi trame extraparlamentari” che gettarono la Rivolta, squisitamente sociale, sul un piano politico ben diverso. 

In questo contesto, fu gioco facile attribuire la “responsabilità” della protesta ai neofascisti, solo perché, come vedremo, i reggini nel momento cruciale, quando partiti, sindacati e organizzazioni nazionali si defilarono, trovarono come loro unico interlocutore Ciccio Franco, dirigente del Movimento Sociale Italiano e sindacalista della CISNAL, ma in realtà prima di tutto reggino tra i reggini. Al riguardo, così ribadisce lo stesso Ciccio Franco in una intervista: “la Rivolta di Reggio non fu missina. Fu però alimentata e guidata, a fronte della vigliaccheria altri, dagli uomini del Movimento Sociale Italiano”.

Al grido di dolore di una comunità intera la risposta dello Stato non fu all’altezza e si misurò solo sul piano repressivo e sulle vaghe promesse di posti di lavoro. Per contrastare i manifestanti, fu fatto confluire un numero impressionante di forze dell’ordine, interi reparti di poliziotti della “celere”, carabinieri e soldati; diecimila uomini provenienti volutamente da regioni del nord, con scarsa conoscenza del tessuto sociale locale, che occuparono scuole, caserme e alberghi, ai quali spesso venivano impartiti ordini confusi e contraddittori. Tutti elementi che innalzarono la tensione fino a sfiorare scenari di guerra. Se non si contarono i morti con la calcolatrice, a detta di tutti, lo si dovette alla grande professionalità e alle capacità di dialogo del Questore Emilio Santillo, che riuscì a gestire situazioni di estrema pericolosità, assumendosi responsabilità e decisioni che evitarono il peggio.

La sintesi di quei mesi di rabbia, scontri, danneggiamenti, arresti, pestaggi, morti, mutilati, feriti, si riassume in uno slogan: Tutti contro Reggio? Beh, allora Reggio contro tutti!”, che i reggini urlavano sulle barricate della Repubblica di Sbarre, del Granducato di Santa Caterina, del Principato di San Brunello, del Regno di Viale Quinto.

Lo Stato, per avere la meglio su dei cittadini arrabbiati che tiravano pietre, dovette optare, prima ed unica volta nell’Italia repubblicana, per la soluzione militare, insistentemente richiesta dai partiti della sinistra.

L’ingresso in città il 18 febbraio 1971 dei mezzi blindati M113 del battaglione mobile dei carabinieri e dei carri armati Sherman dell’esercito, se da una parte fiaccarono la resistenza e il morale dei rivoltosi, dall’altra compromisero la fiducia dei cittadini nei confronti dell’autorità costituita per lungo tempo.

Il contentino del famigerato “Pacchetto Colombo” si rivelò invece un “grande pacco” per i reggini e gli unici benefici apportati (degli oltre 10 mila posti di lavoro promessi fra Quinto centro siderurgico, iniziative in campo turistico dell’EFIM e la Liquilchimica) furono il potenziamento di qualche centinaio di unità alle O.ME.CA. di Torrelupo e la sede del Consiglio regionale.

La protesta parte dagli ambienti reggini della DC e Piero Battaglia, il “Sindaco della Rivolta”, il 5 luglio 1970, insieme al consigliere provinciale del MSI Fortunato Aloi, intrattiene a Piazza Italia il famoso “rapporto alla città”, svelando l’inganno che si stava perpetrando ai danni di Reggio. Localmente, il suo partito lo sostenne solo fino a metà ottobre, poi si tirò in disparte e lasciò il pallino in mano ai vertici romani. Il 16 ottobre, nel giorno della sua rielezione a Sindaco, il Comitato Unitario, formato dai democristiani esce di scena, inviando al presidente del Consiglio dei Ministri il testo di questo telegramma: «Comitato Unitario per Reggio capoluogo, riunito seduta generale, dopo attento esame suo discorso alla Camera dei deputati, considerato che impegni in esso contenuti rispondono appieno finalità programma comitato stesso per competenza parlamento designazione del capoluogo della regione e necessità industrializzazione provincia reggina, riconosce esaurito proprio programma e, in accoglimento suo appello alla normalizzazione, delibera scioglimento comitato stesso».

Il PCI ed il PSI furono decisamente contrari alla Rivolta, pur riconoscendo che vi furono giustificazioni di ordine socio-economico, ma negando che l’obiettivo del capoluogo potesse avere una qualche dignità e denunciano il carattere “eversivo” e “fascista” dei Moti. Il comizio che Pietro Ingrao tenne a Reggio il 9 agosto 1970 Venne contestato fin dall’inizio e quando affermò: «Oggi è importante far funzionare la regione, uno strumento di sviluppo autonomo dalla burocrazia romana, e non tanto stabilire se deve essere Reggio o Catanzaro o Cosenza il capoluogo», gran parte della folla reagì fischiando e gli iscritti strapparono le tessere lanciandole sul palco di Piazza Duomo.

Per quanto riguarda i sindacati, il 16 luglio 1970, all’indomani della morte di Bruno Labate, CGIL, CISL e UIL riconobbero testualmente che: «Alla base di queste spontanee manifestazioni popolari stiano antichi problemi». In sostanza, le confederazioni sindacali vennero prese alla sprovvista dall’esplosione della protesta popolare durante uno sciopero generale spontaneo. Nel prosieguo della Rivolta, a livello nazionale, presero una posizione di condanna, lasciando la sola CISNAL a partecipare agli scioperi e alle manifestazioni di piazza.

All’indomani del 14 luglio, Mentre Ciccio Franco e molti esponenti locali erano impegnati nella protesta, il MSI non ne diede inizialmente una valutazione positiva e non rinunciò a presentarsi come “partito d’ordine” e chiese di ristabilire l’autorità dello Stato, garante della tranquillità dei cittadini. La “questione Reggio Calabria” fu affrontata in una riunione notturna con il Segretario Giorgio Almirante, il deputato Nino Tripodi, il consigliere regionale Benito Falvo e Ciccio Franco, nella notte tra l’8 e il 9 agosto a Polistena, in casa dell’avv. Raffaele Valensise, dove si tenne un vertice per decidere il da farsi. Nei giorni a venire il MSI cambiò progressivamente atteggiamento e, il 16 ottobre, il partito di Almirante sposò definitivamente la causa di Reggio.

Nel dibattito parlamentare di quel giorno la città venne difesa ad oltranza e con essa i rivoltosi; il “Secolo d’Italia”, cominciò ad occuparsene con proprie corrispondenze, quasi giornaliere, tramite Vincenzo Iacopino; cominciarono anche a svolgersi manifestazioni ufficialmente organizzate dai giovani missini; i militanti iniziarono ben presto a partecipare agli scioperi e prendere parte agli scontri di piazza e i maggiori esponenti, oltre Ciccio Franco, quali Fortunato Aloi, Angelo Calafiore, Antonio Dieni, William D’Alessandro, Pietro Gatto, Renato Meduri, Rosetta Zoccali, presero saldamente le redini delle iniziative; apparirono sui muri le prime scritte “Per Reggio Capoluogo: Boia chi molla!” a firma dell’MSI; le notizie sulla Rivolta e sul ruolo che vi stavano ricoprendo i “camerati” di base di Reggio Calabria cominciarono a fare il giro delle sedi missine in tutta Italia.

L’identificazione fra il Movimento Sociale Italiano e la Rivolta ormai era completa e fu sancita con le elezioni politiche del 1972, in cui Ciccio Franco venne eletto al Senato della Repubblica con una votazione plebiscitaria: il 36% nel collegio e il 48% in città (quasi un elettore su due lo votò), sempre rieletto al Senato nelle legislature successive fino al 1991 (anno della sua morte).

Anche i gruppi extraparlamentari tentarono di ritagliarsi un qualche ruolo in quel periodo, in particolare Avanguardia Nazionale e Lotta Continua. Il capo di Lotta Continua Adriano Sofri, giunse a Reggio il 18 ottobre 1970 e tenne una conferenza stampa per spiegare le intenzioni del suo gruppo. Secondo Sofri, in molte aree del Sud sarebbero state mature le premesse di una rivoluzione proletaria contro il sistema e affermò: «…Qui ci sono ottime prospettive rivoluzionarie…Lotta Continua si pone il problema di intervenire anche a Reggio Calabria… con una proposta di organizzazione militare….Il più bel regalo che a Reggio il PCI poteva fare al fascismo… è stato quello di tenersi in disparte, di non capirne la portata…». Ciò nonostante, Lotta Continua non riuscì mai ad inserirsi nell’agone della Rivolta.

L’azione riescì meglio al Fronte Nazionale e Avanguardia Nazionale. Quest’ultimo raggruppamento vantava, a Reggio e nella regione, dei tradizionali punti di forza ed i suoi uomini, si impegnarono subito nei moti ed esponenti come il Marchese Felice Genoese Zerbi e il Barone Musco fecero parte del Comitato d’Azione.

Anche molti altri “personaggi”, non dichiaratamente di destra sposarono, apertamente e senza condizioni, la causa della Rivolta; fra questi il Prof. Giuseppe Reale, l’armatore Amedeo Matacena sr, l’industriale del caffè Demetrio Mauro, l’ex Comandante Partigiano Alfredo Perna, il prof. Franco Arillotta, il medico Rosario Cassone, il “comunista ribelle” Biagio Canale, l’avv. Pietro Marrapodi, l’ing. Eugenio Castellani, il prof. Giuseppe Lupis, il duca Giuseppe Avarna.

La Chiesa Reggina, con in testa il suo Pastore, Mons. Giovanni Ferro, si adoperò molto per cercare di alleviare le sofferenze del popolo in Rivolta e di calmare gli animi dei più esagitati, e anch’essa da subito si schierò a favore di “Reggio capoluogo”. La Curia in una nota dell’11 luglio “esprime piena solidarietà alla civica amministrazione, in quest’ora di grande dolore e smarrimento, alla rivendicazione del ruolo di Reggio a capoluogo della regione, legittimato diritto documentato dalla storia millenaria, confortato anche dal ruolo metropolitico per la Calabria di questa vetusta sede apostolica”.

La Curia reggina e lo stesso Arcivescovo, svolsero sempre una delicata e fondamentale opera di mediazione e di dialogo, anche nei momenti più difficili e cruenti, e furono sempre un punto di riferimento costante per i cittadini. Il 31 luglio una folla di fedeli, con in testa un cartello con la scritta “Maria, ci sei rimasta solo Tu”, portò in processione anticipata il quadro della Madonna per le vie del centro. Il 4 ottobre oltre 10mila reggini si riversarono a piazza Duomo per sentire le parole di conforto e di affetto del loro Pastore. Questa sua vicinanza al reggini in protesta, costò a Mons. Ferro feroci critiche ed accuse da parte di alcuni esponenti della sinistra, che chiesero apertamente l’arresto per il presule. Vicinanza più che cristiana, alla quale si unirono tanti parroci quali: don Italo Calabrò, il Vicario arcivescovile che predicava “nessuno escluso mai”; don Giuseppe Agostino, futuro Vescovo di Crotone e Cosenza; don Salvatore Nunnari, futuro Vescovo di Sant’Angelo dei Lombardi e Cosenza; don. Giorgio Costantino, attuale parroco della chiesa del Divin Soccorso; don Mimmo Geraci, compianto parroco della chiesa di S. Lucia; don Giuseppe Pensabene, già parroco della chiesa della Candelora; don Gregorio Alampi, storico parroco della chiesa Maria SS. del Loreto.

Sulla Rivolta si è detto tanto e scritto forse ancora di più, ma su una cosa non è lecito discutere: la buona fede dei reggini. L“l’anima” che li ispirò e che ne guidò le scelte ed i comportamenti, pur antidemocratici, andò unicamente nella direzione della protesta di un Popolo che non ha accettato supinamente le decisioni di una classe politica staccata dalla realtà, che stava perpetrando una palese ingiustizia e che non riconosceva più nel Popolo stesso la sua più intima essenza. Leggere di accostamenti, di partecipazioni e di interessi della ‘ndrangheta e dell’eversione extraparlamentare durante quella stagione è come uccidere di nuovo le 5 vittime, risentire ancora le urla di dolore dei feriti e dei mutilati, ricacciare la città nel vortice negativo della disinformazione pilotata. Le cronache, anche quelle giudiziarie, le dichiarazioni dei protagonisti, i servizi giornalistici, i resoconti e le informative delle autorità competenti, narrano che i reggini si contrapposero ai moschetti delle forze dell’ordine lanciando pietre a mani nude o con le fionde e, al massimo, prepararono rudimentali ordigni incendiari con le bottiglie delle bibite; per tutto il periodo della Rivolta, non si registrarono furti, rapine, saccheggi e reati connessi alla criminalità organizzata e nessun appartenente alle ‘ndrine si fece notare sulle barricate o nelle manifestazioni, men che meno fu arrestato per quei fatti.

Partire dalla Rivolta del 1970, dallo “scippo” del Capoluogo quindi, per giungere alla “conquista” della Città Metropolitana, attraverso la storia e all’interno di un percorso che caratterizza la politica di Reggio Calabria e il suo spirito non è un esercizio di mero campanilismo. Con la Legge nr. 42 del 2009 è stata riconosciuta Reggio Calabria quale decima Città metropolitana d’Italia, uno straordinario strumento per il definitivo rilancio di tutto il territorio provinciale in ottica nazionale ed europea. Solo dopo 40 anni Reggio ha avuto questo giusto, seppur tardivo, indennizzo, grazie all’intuizione e alla lungimiranza di Giuseppe Scopelliti, che è stato il primo sindaco di Reggio, figlio di quella generazione cresciuta politicamente guardando gli esempi e coltivando i valori che la Rivolta ha trasmesso. Scopelliti immaginava già allora, una città agganciata alle principali reti europee di sviluppo urbano e coordinata per interagire con le altre città metropolitane del Mediterraneo, quale “ponte” europeo naturale per raggiungere le sponde del nord Africa, in chiave turistica e commerciale. Si trattava, in sintesi, di far pesare politicamente la posizione geografica strategica che Reggio detiene ed ambire al ruolo che le compete nel bacino del Mediterraneo.

Pertanto, per ritornare al titolo, per quanto concerne Reggio Calabria, la nascita della Città metropolitana è innegabilmente una conquista della destra politica, quella destra cresciuta a pane, Rivolta e Ciccio Franco. La Coscienza del Popolo reggino ne è consapevole di questo, la stessa Coscienza di Popolo che, piuttosto che agognare improbabili nuove rivolte, dovrebbe pungolare le amministrazioni locali, affinché tramite lo strumento della Città Metropolitana si possa staccare Reggio da quel cordone che la lega alla politica regionale, spesso matrigna e indifferente ai reali bisogni, e agire definitivamente sulla base di quanto era nelle intenzioni di chi ha ottenuto la realizzazione di quel progetto che potrebbe rappresentare per la città un irripetibile, definitivo, salto di qualità.

Alla luce di quanto emerso nel corso di questi 50 anni, in definitiva, qualsiasi lettura si voglia dare alla Rivolta, non può venire meno la dimensione popolare della protesta. In piazza, per le strade e tra le barricate ci furono uomini e donne, giovani ed anziani; proprietari terrieri e agricoltori; studenti, operai ed impiegati; classi abbienti e meno; gente di diverso strato sociale che lottò compatta per rivendicare un diritto, per denunciare un sopruso. Una straordinaria esperienza mai più ripetuta in alcun paese delle democrazie occidentali, l’esperienza di un Popolo che non si arrese, che non si rassegnò, ma che lottò per la giustizia sociale e per il proprio futuro, e che per questo pagò un prezzo altissimo. Dopo lo scippo del Capoluogo, ci vollero molti anni, affinché il territorio si riprendesse da quel colpo quasi mortale, e memorabili battaglie in tutti i consessi elettivi, per avere assegnate alla città importanti istituzioni, tra le quali la sede del Consiglio Regionale, la Corte d’Appello, l’Università, l’Università per Stranieri, l’Accademia di Belle Arti, il Conservatorio di Musica, il Porto di Gioia Tauro, l’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati e, per ultima, la Città Metropolitana. Mai come oggi, in cui a prevalere sono sentimenti di rassegnazione, menefreghismo e antipolitica, il messaggio della Rivolta e l’esempio di uomini come Ciccio Franco, devono essere da monito ai cittadini di Reggio.

Infatti, grazie al coraggio, alla passione, alla caparbietà e alla capacità di personaggi come lui che si riuscì, negli anni post-rivolta, ad ottenere le citate, vitali conquiste per la città. Dal 1992, dall’indomani della prematura scomparsa del sen. Ciccio Franco che, chi scrive, unitamente ad altri esponenti della destra storica di Reggio Calabria, abbiamo tenuto alta l’attenzione e mantenuto vivo il ricordo di quella straordinaria e, nel contempo, tragica esperienza, anno per anno fino ad oggi, con iniziative, cerimonie e manifestazioni private e pubbliche. Nel 2003 il sindaco Scopelliti inaugurò il Monumento ai Moti, realizzato dall’artista Michele De Raco e commissionato dalla amministrazione precedente; nel 2004 fu realizzato nel rione pescatori il parco dedicato ai Martiri della Rivolta; nel 2005, in occasione del 35° anniversario il comune commissionò a“Gazzetta del sud” un docufilm “Reggio Calabria 1970 – la Rivolta”, che fu curato dal compianto giornalista Domenico Calabrò e distribuito in migliaia di copie abbinato in omaggio al giornale e, il 16 novembre, in occasione del 24° anniversario dalla scomparsa del sen. Ciccio Franco, fu scoperta sul Lungomare una Stele in bronzo e pietra a lui dedicata realizzata dall’artista Rosario La Seta; nel 2006 la centralissima Arena, stupendo balcone sullo stretto di Messina, fu dedicata al Leader dei “Boia chi Molla”; nel 2010 per il 40° anniversario, il Comitato civico costituito dal comune a guida centrodestra, organizzò un calendario di eventi che, distribuite nell’arco di un anno, celebrò degnamente quelle giornate con cerimonie ufficiali, convegni, dibattiti e tavole rotonde cui parteciparono giornalisti, storici, politici e protagonisti provenienti da ogni parte d’Italia. Fra le tante iniziative mi piace ricordare il concorso riservato agli studenti delle scuole superiori reggine; il volume speciale, accompagnato da un supporto audio-video anch’esso curato da Mimmo Calabrò; il finanziamento e la proiezione del film “Liberarsi” di Salvatore Romano, primo lungometraggio ambientato nel periodo della Rivolta; l’impegno del Sindaco Scopelliti, preso nel corso di una iniziativa pubblica, di realizzare una sezione dedicata alla Rivolta di Reggio nel costituendo Museo Civico presso il Monastero della Visitazione.

Infine, una cosa ancora è rimasta da fare, proprio in occasione di questo 50° anniversario, e cioè disporre che siano dedicati, a perenne memoria, i luoghi in cui caddero i Martiri della Rivolta: Via Logoteta, in cui il 15 luglio 1970 fu ritrovato agonizzante il ferroviere Bruno Labate; lo slargo del Rione Ferrovieri in cui il 17 settembre 1970 fu ucciso l’autista Angelo Campanella; la parte del Calopinace in cui il 17 settembre 1971 cadde il banconista Carmine Jaconis.