Salerno, Borrelli: “In Calabria non ci sono giudici corrotti, tranne Petrini”

Come avevamo ampiamente previsto la procura di Salerno dopo tanto strategico tentennare getta la maschera e annuncia: nel distretto giudiziario di Catanzaro non ci sono giudici corrotti, tranne Marco Petrini. A farsi carico di questa ennesima presa per i fondelli dei calabresi onesti il procuratore capo di Salerno, Giuseppe Borrelli, eletto a nuovo guardiano dei sacri e inviolabili privilegi della casta più potente d’Italia, e custode del primo comandamento dell’ordine degli amici degli amici con la toga: cane non mangia cane. Magistrato non arresta magistrato, anche quando si macchiano di gravi reati, la tendenza è sempre quella di imboscare, insabbiare, mettere a tacere, e soprattutto rispettare il secondo comandamento: i panni sporchi si lavano in famiglia. Ovviamente non sempre riescono ad occultare tutto, e qualcosa, come nel caso di Marco Petrini, scappa.

A recitare la solita litania del proscioglimento da ogni accusa dei 15 magistrati (del distretto giudiziario di Catanzaro) finiti nei verbali di tante inchieste di ‘ndrangheta, il dottor Giuseppe Borrelli procuratore capo di Salerno, coinvolto nelle carte e nelle intercettazioni di Luca Palamara e Cesare Sirignano che lo volevano come procuratore capo a Perugia, per fermare il pm Ielo, titolare dell’inchiesta su Faccia di Tonno (Luca Palamara), una nomina che lo “scandalo sulle nomine al Csm” venuto fuori proprio in quel periodo, impedì. C’è anche da dire che il dottor Borrelli conosce bene la Calabria, ha prestato servizio presso la Dda di Catanzaro come Pm antimafia dal 2009 al 2014, e conosce bene il distretto giudiziario di Catanzaro: ha lavorato gomito a gomito con Vincenzo Luberto, ex aggiunto presso la Dda di Catanzaro, e rinviato a giudizio per corruzione e rivelazioni d’ufficio, e nonostante ciò “motiva” “l’assoluzione preventiva” dei 15 magistrati indagati dalla sua procura (che dovrebbe sostenere l’accusa), con alcuni “concetti investigativi” che francamente altro non fanno se non evidenziare la volontà della casta dei magistrati di insabbiare e chiudere così questa ennesima parentesi di ordinaria corruzione nei tribunali calabresi.

La magistratura dopo il caso Palamara non può permettersi altri scandali, e quello che si profilava nel distretto giudiziario di Catanzaro sarebbe stato ancora più “devastante” del caso Palamara. Per cui è meglio, per gli amici degli amici con la toga, mettere tutto a tacere, tanto paga Petrini per tutti. Già, Marco Petrini, ex presidente della corte d’Appello di Catanzaro condannato a 4 anni e 4 mesi per corruzione nel procedimento denominato “Genesi”. Famosa è diventata l’immagine che lo ritrae mentre accetta una bustarella per addomesticare una sentenza (cosa realmente avvenuta) a carico di Francesco Patitucci condannato a 30 per un omicidio di stampo mafioso, direttamente dalle mani dell’avvocato Marcello Manna. Una foto che altro non è che un frame estratto da un video girato dai finanzieri che tenevano sotto controllo l’ufficio dell’ex giudice. Fu lo stesso Petrini subito dopo il suo arresto a raccontare ai pm salernitani Masini e Senatore tutto il marcio che c’è nei tribunali calabresi. L’ex giudice terrorizzato dalla cella (dove ha sbattuto un sacco di gente, innocenti compresi), e dall’idea di doverci ritornare e magari restarci per un bel po’ di tempo, si dimostrò da subito collaborativo con gli ex colleghi, raccontando, senza omissioni, tutta la verità sui tanti fatti di corruzione da lui, e dai suoi colleghi di massoneria deviata, commessi, rivelandosi, ai fini investigativi, una miniera d’oro di informazioni. Ma come sempre avviene quando le inchieste riguardano pezzotti politici e magistrati, le “cantate” di Petrini non ci hanno messo molto tempo ad arrivare nelle segrete stanze della sacra paranza, servite sul solito vassoio d’argento dalle tante operose talpe presenti in procura, creando non poca preoccupazione nei tanti fratelli che sono corsi subito ai ripari: disinnescare la bomba Petrini, con priorità assoluta.

I fratelli non ci misero molto a far capire a Petrini, anche attraverso le parole di suoi familiari, che sarebbe stato meglio per tutti se avesse rivisto le sue dichiarazioni, e in cambio, chi di dovere, si sarebbe adoperato per fargli ottenere la “libertà”. Una proposta che Petrini non rifiutò, anche perché conteneva velate minacce all’incolumità della sua famiglia. Da quel momento in poi Petrini, capita l’antifona, assume un altro atteggiamento davanti ai pm, iniziando a ritrattare molte delle accuse sostenute nel primo interrogatorio, e ammettendo solo quello che non poteva occultare. In poche settimane da esimio e illustre alto magistrato, il Petrini, finì con l’essere paragonato al più veloce “cambiatore di versione” che la storia giudiziaria italiana ricordi: zio Michele d’Avetrana, quello del “ho stato io” “ha stato il trattore”. L’immagine perfetta da dare in pasto all’opinione pubblica, e poter far leva sull’inattendibilità dell’ex magistrato che un giorno dice una cosa e il giorno dopo il contrario. Un piano perfettamente riuscito.

Bene, di fronte a questo che è solo un aspetto dell’enorme corruzione presente nei tribunali calabresi, il procuratore Borrelli per mettere fine a questa storia ha deciso di informare i cittadini calabresi che il suo ufficio ha lavorato molto sulle dichiarazioni di Petrini, mettendo sotto controllo i 15 magistrati indagati, ma dalle intercettazioni non è emerso nulla di compromettente, forse perché, continua, i magistrati attenzionati sapevano di essere ascoltati e ovviamente al telefono non si sbilanciavano mai. E questo per colpa di un articolo apparso sul Fatto Quotidiano che svelava all’opinione pubblica l’esistenza dell’inchiesta sui magistrati del distretto di Catanzaro. Di più, dice Borrelli: se a ciò si aggiunge anche l’emergenza sanitaria, con conseguenti periodi di lockdown che, sulla carta, potrebbero aver «ridotto, se non annullato del tutto» le possibilità d’incontro fra i “bersagli designati”, il quadro che ne viene fuori è privo di “reati”. Insomma per Borrelli potrebbero essere colpevoli, ma non ci sono le prove perché i 15 magistrati si sono attrezzati per non commettere errori. Sono dei furbastri difficili da incastrare. E non sono sufficienti, come prova, neanche le informative (estratte da Rinascita Scott) che Gratteri gli ha inviato, così come non contano nulla le dichiarazioni dei tanti pentiti ascoltati da Borrelli: Pasquale e Giuseppe Giampà, Raffaele Moscato, Andrea Mantella, Gennaro Pulice e Cosimo Virgiglio. Le loro sono da considerarsi solo chiacchiere non riscontrabili, che sono valse però ergastoli per tanti ‘ndranghetisti. Ma per i magistrati ci vuole molto di più delle chiacchiere dei pentiti, quelle valgono solo per i soldati ignoranti di mafia.

Per Borrelli, visto che non si sbilanciano e stanno attenti a commettere errori in un momento in cui sanno benissimo di essere sotto controllo, è inutile proseguire con le indagini che tanto non se ne ricava niente. Ed è per questo (PQM) che è meglio lasciarli in pace, e chiudere qui questa storia che se non fosse stata per una fuga di notizie, nessuno l’avrebbe mai saputa. Prove per dire che esiste la corruzione nei tribunali di Cosenza, Vibo, Crotone, Catanzaro, Castrovillari, non ce ne sono. Perciò rassegnatevi calabresi onesti, vi toccherà convivere ancora con personaggi che ricoprono un ruolo importante e delicato come quello del giudice, su cui pende l’ombra del dubbio. Anzi, l’ombra della  “furbaria” massomafiosa. Che è l’antitesi della figura e dell’immagine del giudice. Ma questo a noi ci tocca.

In Calabria vige la legge della paranza: stato e ‘ndrangheta sono la stessa cosa. E spesso anche uno come Borrelli che non è certo di primo pelo, deve arrendersi a pressioni talmente forti alle quali è difficile resistere, se non con le dimissioni. Ci rattrista pensare alla consapevolezza di Borrelli, che ha letto e ascoltato tanto e sa bene come stanno realmente le cose, nell’accettare che ad amministrare la Giustizia in Calabria ci siano tra i tantissimi giudici onesti, anche chi non merita questo onore. Tanto a farne le spese sono i cittadini. E poi non tutti i mali vengono per nuocere. Così facendo Borrelli, ovvero archiviando le inchieste, avrà più personale disponibile per indagare su di noi che i suoi colleghi corrotti, a differenza sua, li abbiamo sempre denunciati.