Scalea, “Romanzo criminale” in salsa cosentina (di Egidio Lorito)

PANORAMA
Politica 22 Dicembre 2020

Romanzo criminale in salsa cosentina a Scalea

Il popoloso centro della costa settentrionale calabrese, sta vivendo anni di instabilità politico-amministrativa, culminati con l’arresto, dal 2013, di ben tre dei suoi ultimi sindaci
di Egidio Lorito

Fonte: Panorama

Per capire cosa stia succedendo nella cittadina calabrese, ancora alla ribalta della cronaca giudiziaria nazionale all’indomani della inchiesta “Re Nudo” che ha condotto dietro le sbarre il terzo sindaco negli ultimi sette anni, Panorama.it ha cercato di riannodare i fili di una lunga stagione di instabilità politico-amministrativa, interpretando gli umori dell’opinione pubblica, la rabbia degli intellettuali e le attese della nuova classe politica. Per voltare pagina.

“Non c’è due senza tre”, verrebbe quasi da esclamare, traslando un detto della cultura popolare italica nel ben più algido Primo assioma della Legge di Murphy. E sì, perché dopo l’imponente operazione della procura distrettuale di Catanzaro nel luglio del 2013, passata alle cronache con il nome di “Plinius”, che disintegrò in una sol notte sindaco e giunta, dopo l’operazione “Ghost work” della Procura ordinaria di Paola che giusto un anno addietro arrestò un secondo sindaco portandolo alle dimissioni la vigilia di Natale, ora è toccato all’inchiesta “Re Nudo” portare dietro le sbarre, appena qualche giorno addietro, il terzo sindaco consecutivo, completando una triste trilogia tutta in salsa cosentina, in un territorio spesso ignorato dai più svagati osservatori e dai meno fedeli servitori dello Stato. Latinizzata in Rex nudus o inglesizzata in Naked king, giusto per agganciarla linguisticamente alle precedenti inchieste, “Re nudo” sta disvelando la vivacità criminale dei colletti bianchi, mai paghi del loro già remunerato ruolo pubblico.
Glorioso passato e macerie politico-amministrative.

La prima impressione che si ricava giungendo nell’abitato, percorrendo l’emblematica Statale 18, è di stridente contrasto: la parte antica di Scalea, un affascinante borgo frutto di stratificazioni culturali dal paleolitico in giù, tutto raggomitolato a gradoni sino a culminare nel campanile della Chiesa della Madonna del Carmine -la patrona della città- sembra non avere nulla da spartirsi con quella lunga teoria immobiliare che, appena alla base di quest’antico miracolo architettonico, prende letteralmente il largo: frutto di quel boom cementizio che dalla metà degli anni ’70 avrebbe modificato il volto della costa tirrenica calabrese, in peggio, ovviamente, ad opera di predoni del calcestruzzo, pronti ad occupare ogni metro cubo messo loro a disposizione. E’ accaduto così che comunità di poche migliaia di residenti si trasformassero, nel periodo estivo, in contenitori umani da centinaia di migliaia di abitanti, sommergendo l’ingegno meticoloso della natura che continua a contrapporsi alla bruttezza stupefacente dell’operare umano. Un’immagine che si ripete praticamente lungo l’intera Strada statale 18 tirrena inferiore, “la strada che ha visto trasformarsi il paesaggio e la vita della Calabria tirrenica in quella frangia continua e disordinata di cemento e asfalto che oggi vede lo scempio macrofisico e microfisico del fai da te della speculazione immobiliare e dell’abusivismo saldamente in mano a mafie e privati”. E’ oltremodo tranchant Mauro Francesco Minervino, ordinario di Antropologia culturale ed etnologia all’Accademia delle Belle Arti di Catanzaro, notista, autore di saggi fondamentali per ricostruire l’antropologia calabrese contemporanea. “Vivere nel brutto senza accorgersi che è brutto, è possibile” -sottolinea- “in mezzo alla Statale 18, insomma, corre un mondo e una vita che fermenta come il mosto di una cattiva vendemmia. Qui c’è tutto quello che sta a sud di Gomorra”.

Dalla fiaba di Andersen agli intrecci criminali

“Come non associare le figure allegoriche della fiaba di Andersen ai protagonisti che circondano i re dei nostri giorni che spesso sono soli con il loro potere, privi di verifiche concrete sui loro comportamenti, circondati da collaboratori, che vivono in uno stato di soggezione gerarchica?”. Se lo chiede, provocatoriamente, la psicologa Ursula Valmori a proposito della teoria secondo cui il potere del leader ha bisogno della sua follia. Perché pare proprio che leggendo il poderoso incarto procedimentale dell’operazione “Re Nudo”, coordinata dalla Procura della Repubblica di Paola e condotta dal capitano Andrea Massari, comandante della Compagnia dei carabinieri di Scalea, l’impressione sia di pura follia. Il titolare dell’Ufficio giudiziario paolano, Pierpaolo Bruni, ha visto accolte dal Gip Rosamaria Mesiti le richieste cautelari -dal carcere ai domiciliari, sino all’interdizione dai pubblici uffici e servizi- compendiate in ben 1161 pagine che confermano quanto da tempo stesse accadendo, e cioè che la cittadina alto-tirrenica fosse stata risucchiata in una pericolosa spirale di interessi criminali ed appetiti politico-clientelari. Con il risultato di apparire, agli occhi dell’opinione pubblica nazionale, come qualcosa di altro dal suo antico essere “terra di duchi e principi, mercanti, filosofi e santi”, per come la storiografia più accreditata la colloca nei suoi prestigiosi annali.

“Re Nudo”, dunque, ma in questo caso la cultura underground internazionale ed il Movimento studentesco della Milano di fine anni Sessanta sono solo un richiamo per intellettuali d’antan: questa volta il fantasioso lessico giudiziario utilizzato per denominare l’inchiesta mira dritto al white-collar crime, alla criminalità dei colletti bianchi. Senza scomodare la Scuola di Chicago, ovviamente.
“Nel corso di quest’ultimo decennio almeno è venuta fuori una Scalea mortificata dall’incedere del cemento e del mattone e dalla quasi mancanza di una progettualità e gestione del territorio. E’ mancato l’avvio di quel processo salutare di bottom-up che sapesse coniugare il ricco patrimonio territoriale, la cultura popolare e le risorse umane autoctone con le opportunità globali”, irrompe Franco Galiano, saggista e drammaturgo, docente emerito di letteratura moderna al Liceo Scientifico Metastasio di Scalea e presidente dell’Accademia internazionale del Cedro.
“Nella mia opera “Le più belle anime di Scalea’’ -evidenzia- “dialogo con personalità che hanno contribuito a creare l’identità prestigiosa della città, come il filosofo Gregorio Caloprese e la sua scuola con Pietro Metastasio e Gian Vincenzo Gravina, noto letterato e giurista, fondatore dell’Accademia dell’Arcadia”.

Mario Russo, ovvero della follia del leader

E’ una storia di colletti bianchi, dunque. Arrestato nella sua qualità di presidente della Commissione per le invalidità civili che ha sede nella vicina Diamante -gioiello turistico della riviera cosentina, finita a sua volta al centro dell’inchiesta per almeno tre posizioni riconducibili direttamente all’amministrazione in carica- Mario Russo, classe ‘61, otorino-laringoiatra, dal 1991 dipendente e poi dirigente medico dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza, impersona agli occhi dei locali il classico esempio di leader politico cresciuto a colpi di clientelismo spicciolo. Pronto a qualunque compromesso finalizzato ” (…) sia al proprio arricchimento illecito e sia a mantenere ed incrementare il pacchetto di voti che egli movimenta in occasione delle varie consultazioni elettorali, come da lui stesso affermato nel corso di alcune conversazioni captate (…)”, come scrive ancora il Gip Mesiti. Un cursus politico, il suo, degno della miglior parabola ascendente: da sempre attivissimo nella vita politico-amministrativa territoriale, primo cittadino nel decennio 2000-2010, leader della coalizione di centro-destra che si rifaceva alle posizioni dell’allora governatore della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti (2010-2014), e, soprattutto, a quelle della defunta presidente della Regione Jole Santelli (2020).

Guardate dietro Berlusconi e la Pascale: la faccia di bronzo che spunta è quella di Mario Russo

Poi, ancora, una straripante affermazione al consiglio provinciale (1999), un’elezione sfiorata al consiglio regionale nel 2010, bilanciata dalla nomina, nel giugno del 2011, nel consiglio di amministrazione dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Regione Calabria, per la quale venne anche rinviato a giudizio, nel 2015, insieme all’allora presidente del Consiglio regionale. Ma è nel corso della sua lunga sindacatura che Russo pone le basi per quell’intreccio politico-clientelare sfociato, alla fine, proprio nella nuova inchiesta “Re Nudo”, che per gli inquirenti altro non sarebbe che la versione da “colletto bianco” delle ben più sconquassanti inchieste “Plinius” e “Plinius 2”: queste due, coordinate dalla Dda di Catanzaro, rasero al suolo un complicato intreccio politico-mafioso da tempo imperante nella città cosentina. Ecco spiegato perché, oggi, ad affiancare la procura paolana in questa nuova inchiesta siede un giovanissimo sostituto procuratore distrettuale, Romano Gallo, assegnato per il territorio costiero.

Plinius, chi era costui?

L’appellarono “Plinius” i magistrati dell’antimafia di Catanzaro la più imponente inchiesta mai approdata nell’alto Tirreno cosentino, semplificando, però, nominalmente. In effetti, a voler essere pignoli come durante un’interrogazione di storia latina, avrebbero dovuto aggiungere l’aggettivo maschile “Vetustus”, “Il Vecchio”, perché la sede del Municipio di Scalea, centrale operativa delle collusioni politico-criminali disvelate in una calda notte del luglio del 2013, insiste proprio lungo Via Plinio il Vecchio: scrittore, naturalista, filosofo, comandante militare e governatore provinciale romano, scomparve addirittura nel corso della grande eruzione del Vesuvio, che seppellì Pompei, in quel 79 dopo Cristo. Ironia della storia, anche Scalea visse, all’alba del 12 luglio del 2013, la sua tremenda eruzione, quando i proiettori delle unità elitrasportate illuminarono a giorno il blitz dei militari del Comando Provinciale di Cosenza e dei colleghi locali, puntando dritto alle stanze del potere municipale.

In 38 persone furono arrestati, tra cui l’allora sindaco Pasquale Basile -che proprio di Mario Russo aveva preso il posto nel 2010- i suoi 5 assessori, tecnici comunali, imprenditori e uomini d’onore, tutti ritenuti, a vario titolo, responsabili di associazione per delinquere di tipo mafioso, sequestro di persona, detenzione e porto di armi comuni e da guerra, estorsione, rapina, corruzione, turbativa d’asta, turbata libertà del procedimento amministrativo, concussione, falso, istigazione alla corruzione e minaccia, tutti aggravati dal metodo mafioso, rimodulato in seguito. Ma questa è materia per giuristi dal palato fine. Si lesse, in quell’occasione, grazie alle certosine indagini dei carabinieri del posto, dirette dal giovanissimo tenente salernitano Vincenzo Falce -oggi maggiore, comandante provinciale dei carabinieri di Benevento, insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica- dell’esistenza di “un’associazione per delinquere di stampo ‘ndranghetistico operante, nel territorio del comune di Scalea e comuni vicini, subordinata al locale di Cetraro facente capo alla famiglia Muto che, avvalendosi della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà della generalità dei cittadini, è finalizzata al controllo ed allo sfruttamento delle risorse economiche della zona, al compimento di delitti contro il patrimonio e contro la persona attraverso la sistematica disponibilità di armi comuni e da guerra”.

A 60 milioni di euro ammontarono i beni mobili ed immobili sequestrati: “money it’s a crime / Il denaro è un crimine”, verrebbe da sottolineare, spingendoci musicalmente nella Londra musicale targata Pink Floyd. E in quella retata anche il dottor Russo, risultò indagato: all’epoca, i carabinieri perquisirono abitazione e studio medico, visto che la Dda ipotizzava la vicinanza della sua precedente amministrazione proprio al sodalizio criminale locale, soprattutto in occasione dei lavori per la costruzione del porto turistico della sua città, da allocare nelle acque dello storico gioiello architettonico di Torre Talao. Opera mai eseguita, ovviamente, da appaltare ad una ditta riconducibile ad un presunto appartenente ad un clan di Castellamare di Stabia, nel napoletano, per un importo di oltre 14 milioni di euro. Rimane ancor oggi un mistero il silenzio giudiziario che calò proprio sul nome dell’ex sindaco che, magicamente, si eclissò da quell’inchiesta. Ma come si dice, i misteri sono fatti apposta per essere svelati. Nel tempo.

Colpì, dell’inchiesta “Plinius”, che il ruolo di collante tra l’amministrazione comunale decapitata ed i capi malavitosi fosse impersonato da un insospettabile avvocato locale, Mario Nocito, pronto a piegare la sua conoscenza del diritto ai desiderata criminali: sapeva tutto, si disse, tranne che le sue stesse conversazioni venissero costantemente registrate sin dentro il suo studio, sin sotto la sua scrivania. Insomma: sopra il Codice Rocco e sotto le cimici dell’antimafia, che registrarono l’inverosimile. E fu così che per l’antica comunità, “terra di duchi e principi, mercanti, filosofi e santi” calarono le tenebre, lungo quasi tre anni di commissariamento. “La gente si sentì soprattutto tradita da chi aveva carpito la fiducia elettorale accordata a liste civiche spesso capeggiate da giovani alla prima esperienza politica. E invece s’era abbattuta, sulle speranze comuni, una tempesta giudiziaria che avrebbe potuto fare di un centro turistico, molto frequentato per le sue bellezze paesistiche, un covo di corruttori e di corrotti”, ricorda Enrico Esposito, docente emerito di letteratura italiana e latina al Liceo scientifico Metastasio, e vicepresidente dell’Istituto calabrese per gli Studi dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. “E pensare che tutto questo avveniva -si inalbera il docente- “in un paese dai trascorsi culturali illustri fin dalle età più antiche, con Gregorio Caloprese che, a fine Seicento, da cartesiano, aveva propugnato un’etica per la politica. Sino ai martiri del Risorgimento. Triste, allora, veder prevalere il machiavellismo degenere del fine che giustifica i mezzi. E nasceva profondo turbamento per quel fine che produceva effetti ripugnanti”.

Sanità. Maledetta sanità

Posta sotto la lente di ingrandimento del Ministero dell’Interno, Scalea tentò di risollevarsi nel giugno del 2016, all’indomani delle elezioni comunali che decretarono la vittoria di Gennaro Licursi alla guida di una lista civica di centro-sinistra: ebbene, quel pacioso dipendente dell’Azienda sanitaria provinciale, responsabile del servizio del 118 e delle guardie mediche del distretto del Tirreno, invece, tradendo tutti e tutto, dopo tre anni e mezzo di apparente normalità, venne clamorosamente arrestato l’11 dicembre del 2019 nell’ambito dell’inchiesta “Ghost work” e posto ai domiciliari da un altro Gip paolano, Maria Grazia Elia, sempre su richiesta del procuratore capo di Paola, Pierpaolo Bruni e del sostituto Maurizio de Franchis, grazie alle avveniristiche indagini condotte dalla Guardia di finanza cittadina del capitano Federico Gragnoli.

Le accuse? Truffa aggravata ai danni dello Stato e falsa attestazione della presenza in servizio, perchè Licursi si assentava dal lavoro per andare al bar o a passeggiare, collezionando oltre 650 ore di assenze ingiustificate. Un novello “furbetto del cartellino” con tanto di appendice da gossip rosa, e tutto ciò con la complicità di colleghi della sanità territoriale, per i quali l’impiego nello scalcinato settore pare non fosse proprio una missione francescana. Finì col patteggiare a due anni di reclusione la sua esperienza di sindaco e la sua lunga carriera nella politica locale, le cui trame passano, quasi sempre, per le vicende della sanità.

Qui, in riva al Tirreno cosentino, ci si spartisce le briciole, mentre i casi di malasanità, di morti sospette, di disarmante obsolescenza delle strutture mediche dettano l’agenda politica quotidiana. Quando non anche quella della vita dei poveri cittadini. Un senso di precarietà che si materializza tutto nelle fattezze di un palazzone che svetta sulla collina della località Petrosa, un aereo e solare poggio che per la sua invidiabile posizione avrebbe potuto ospitare un hotel ad “n” stelle, tanto ambita si presenta l’area in oggetto. Per anni rimasto un ammasso di mattoni da sembrare traslato direttamente da Beirut, fu inaugurato con la classica “pompa magna” per ambire al ruolo di ospedale cittadino: oggi è il poliambulatorio, ed accanto a locali di assoluta fattura, cela settori mai portati a compimento o altri per i quali lo champagne per l’inaugurazione, dimenticato in qualche cella frigorifera, sarà ormai passato dallo stato liquido a quello solido, tanto il tempo trascorso. Ebbene, questo simbolo dell’incompiutezza fatta sistema ha per anni ospitato gli uffici e le poltrone sia del potente Mario Russo che dell’aspirante tale Gennaro Licursi, epigoni di mai dimostrate virtù politiche ed oggi risucchiati in quella “spirale del silenzio” in salsa cosentina, tanto per andare a disturbare il sonno eterno di una sociologa del calibro di Elisabeth Noelle-Neumann. Ma questa è un’altra storia, per carità. Qui si parla solo di fantasmi…

Russo, un uomo per tutte le stagioni

E allora, in piena pandemia da coronavirus, perché farsi mancare una nuova inchiesta sulla sanità locale che vede tutti insieme allegramente indagati ex sindaci, assessori in carica, rappresentanti delle forze dell’ordine, delle istituzioni non solo politiche, avvocati, medici, titolari di scuole guida e di ditte di onoranze funebri? Un’intera rassegna codicistica, che spazia dalla concussione alla corruzione, dall’associazione per delinquere alle falsità materiale ed ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, dalla truffa aggravata ai danni dello Stato per il conseguimento di erogazioni pubbliche all’induzione indebita a dare o promettere utilità, permea -infatti- l’ultima operazione “Re nudo”. E in gioco non ci sono solo la pubblica amministrazione, la fede pubblica, il patrimonio, materie per tecnici del diritto e della procedura penale: in ballo c’è il profilo sociologico, antropologico e culturale di un territorio, per la semplice ragione che le tre inchieste di fila dimostrano come la società locale sia stata vittima, ancora una volta, di una terribile “mutazione antropologica”. Raccontano le cronache underground che perfino nel corso della campagna elettorale per le ultime elezioni amministrative, quelle del 20 settembre scorso, la sua presenza aleggiasse costante, riuscendo anche a far candidare un suo fidato sodale all’interno di una delle tre liste scese nell’agone politico. L’esito delle urne, questa volta, gli avrebbe girato le spalle, premiando invece un giovane avvocato, Giacomo Perrotta, da tre mesi nuovo sindaco, al quale i suoi concittadini guardano, ora più che mai, con un mix di sentimenti che vanno dal coraggio alla speranza.

Troppo azzardato citare Pier Paolo Pasolini ed i suoi “Scritti Corsari” (“Lo sviluppo, pragmaticamente voluto dal Potere, si è istituito storicamente in una specie di epoché, che ha radicalmente trasformato, in pochi anni, il mondo italiano”)? Assolutamente no, perché le 1161 pagine dell’ordinanza firmata dal coraggioso Gip Rosamaria Mesiti -perché ci vuole coraggio ad inchiodare alle proprie responsabilità uno spaccato intero del consorzio umano locale- restituiscono l’immagine plastica, agghiacciante e scoraggiante, di un modus operandi divenuto prassi granitica, considerato che -verga ancora il Gip- “le indagini hanno fornito un quadro davvero grave ed allarmante, facendo emergere come Russo abbia completamente mercificato la sua delicata funzione di medico legale appartenente ad una pubblica amministrazione, svuotandola di ogni contenuto etico e professionale e piegandola, in via del tutto esclusiva, ai suoi fini personali”. Il tutto condito da 233 ipotesi accusatorie a suo carico. Eccola, in poche righe la mutazione, a questo punto genetica.

A proposito di coraggio che non manca certo a chi quelle richieste cautelari aveva avanzato: Pierpaolo Bruni, crotonese, 53 anni, dal giugno del 2017 alla guida della procura paolana, voluto all’unanimità del Csm. A Paola Bruni era approdato preceduto dalla fama di grande investigatore, di persecutore della mala amministrazione -ben cinque i sindaci della costa arrestati in pochi mesi, sei con l’ex Russo- e, soprattutto, di arcigno “prosecutor”, nell’accezione stilisticamente anglosassone del rito accusatorio. Fama conquistata sul campo, quello minato che in Calabria significa ‘ndrangheta che Bruni ha sempre sfidato a viso aperto, ricevendone minacce ed un paio di condanne a morte: la prima nel 2006, quando i carabinieri di Vibo Valentia fecero luce su una colletta di 280 mila euro, organizzata dai clan del posto, per acquistare armi da combattimento in grado di sfondare l’auto blindata dell’allora 39enne sostituto procuratore; la seconda, nel novembre 2014, quando si scoprì il piano per un’azione spettacolare da portare a termine tra le montagne della Sila. Modello Capaci, per intenderci.

Intanto, ristretto nel carcere di Cosenza, Russo è comparso in videoconferenza innanzi al Gip Mesiti ed al Pm distrettuale Gallo per l’interrogatorio di garanzia: difeso dagli avvocati Sabrina Mannarino e Giuseppe Bruno, si è avvalso della facoltà di non rispondere, rilasciando però dichiarazioni spontanee e sostenendo di essere emigrato, lavorativamente, presso l’Asp di Potenza. Risulta infatti in entrata, dal primo dicembre scorso, presso il Servizio igiene sanità pubblica del Distretto della Salute di Lauria, nel potentino, a pochi passi dal confine calabrese: non che, poi, in Basilicata le cose, in fatto di sanità, vadano molto meglio che in Calabria, come dimostrato dalle recenti inchieste che hanno investito e decapitato i vertici regionali politici e sanitari. Ma questa è un’altra storia. O forse proprio no. Bisognerebbe, allora, farsi una chiacchierata con un sacerdote da sempre in prima fila nella lotta al malaffare, quel Don Marcello Cozzi per il quale, la Basilicata, da tempo ormai non è più l’isola felice che si voleva far credere…

Miseria e nobiltà

Giannino Losardo

“La storia della ’ndrangheta del Tirreno cosentino è parte integrante della narrazione criminale del sistema politico-mafioso che ha dominato (e continua a farlo) Cosenza e la struttura socioeconomica del suo territorio”, sottolinea allarmato Giancarlo Costabile, docente di Teoria e storia della Pedagogia dell’antimafia all’Università della Calabria, il cui laboratorio seminariale ha appena festeggiato il decimo anno di attività.
“A distanza di quarant’anni dall’omicidio (rimasto impunito) dell’ex sindaco e assessore di Cetraro, Giannino Losardo, storico dirigente comunista, nonché segretario della Procura della Repubblica di Paola” -aggiunge il ricercatore cosentino- <<le sue denunce sulle commistioni tra politica e mafia restano di una sconcertante attualità. Il Tirreno cosentino è stato in tutti questi anni, nel silenzio assordante della cosiddetta società civile, un laboratorio criminale che ha restituito a tutti noi la capacità delle mafie di dar vita a una complessa e articolata struttura di governo del territorio”.

“I calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato -anche gli alberi, le case, il paesaggio- con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Jesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio”, ammoniva Giuseppe Berto, nato nel trevigiano e, per sua scelta, sepolto a Capo Vaticano, nel vibonese. E forse a questo lungo romanzo criminale in salsa cosentina si attaglierebbe il titolo della sua opera più famosa, “Il male oscuro”.
Intanto a scavare, tra le carte, stanno pensando le donne e gli uomini della parte sana dello Stato. Anche nella provincia cosentina…
Panorama.it Egidio Lorito, 22/12/2020