Sciopero di cortesia: il fronte sindacale sempre più “venduto”

(Anna Lombroso per il Simplicissimus) – Non ricordo quando il Ministero del Lavoro è diventato del Welfare come impongono lo slang dell’Impero di Occidente e i suoi sacerdoti ben impersonati da Severgnini che non otterrebbero al cittadinanza se si imponesse un periodico esame di italiano anche per gli indigeni.

Welfare significa genericamente benessere e per estensione indica la sfera delle politiche sociale e di protezione delle persone, che lavorino o no e dovremmo cominciare a denunciare per abuso i governi che si sono avvicendati e ora il Ministro Orlando che commenta così  lo sciopero generale di giovedì 16 dicembre, indetto da Cgil e Uil: «è legittimo ma non lo condivido», denunciando una condizione di subalternità e di soggezione, incompatibile con la sua funzione di decisore e con quella di rappresentante eletto in un Parlamento che ha visto ridursi la sua sovranità grazie all’abiura dei suoi membri interessati unicamente alla conservazione della rendita di posizione.

Mostra anche una certa approssimazione semantica: lo definisce legittimo ma forse. obtorto collo,  voleva intendere legale, visto che ormai la legittimità è stata sospesa nell’ambito di uno stato di eccezione che sopporta malvolentieri perfino le leggi che detta, preferendo misure autoritarie riconducibili alla casta sacerdotale dell’esecutivo,  costretta dal permanere di un dettato costituzionale sempre più rarefatto a tradurre in articoli e commi i suoi dogmi.

C’è sa essergli grati comunque, perché la dichiarazione di un esponente del governo, che accetta lo sblocco dei licenziamenti, che tollera che imprenditori in lista d’attesa per accedere agli aiuti di Stato licenzino senza preavviso e abbandonando un tavolo negoziale tramite e mail e sms, che acconsente che venga dimezzato il budget previsto per gli ammortizzatori sociali, che si prodiga per la mitizzazione dei successi del governo nella lotta alla disoccupazione, omettendo che il 90% dei nuovi contratti sono sottoscritti da lavoratori precari, che china la testa di fronte alla censura e alla proibizione di manifestare in piazza, contribuisce a convincere anche i meno inclini ad aderire a un’agitazione che è stata proclamata dall’alto, come accade ormai per qualsiasi atto che impegna i cittadini,

Eh si, vale ancora una volta l’antica regola, quella che aiuta a distinguere il bene dal male guardando chi si ha di fronte, contro o di fianco, una pratica ormai labile se proprio i contesti delle lotte sacrosante vengono delegittimati per via della presenza  di occasionali cattive compagnie e se ormai le gestione manichea della morale è un monopolio esclusivo dell’oligarchia, che ha assunto la funzione etica e educativa di mostrarci la strada e gli obblighi della virtù secondo i suoi paradigmi.

Così tocca scioperare, non tutti per carità, perché il tenace e incrollabile fronte sindacale ha già fatto delle concessioni collaborazioniste, intese oltre che a ammansire la “controparte”, a salvaguardare una reputazione legalitaria di prudenza e ragionevolezza.

Non tutti e non su tutto: perché la piattaforma di “lotta”, altro termine abusato e che potrebbe trasformarsi in condannabile apologia, prevede assennate omissioni in favore della manutenzione della buona relazione con le autorità, salvaguardata da trattative condotte al coperto, ma soprattutto dalla selezione saggia e equilibrata dei target oggetto della solidarietà e della funzione di rappresentanza, contrattualizzati, pensionati, lavoratori della Pubblica Amministrazione, quelli che un tempo si definivano “garantiti” e oggi “regolari”, come se fosse regolare che da trent’anni i salari siano fermi, come se fosse regolare che chi lavora a paga le tasse debba ricorrere a sanità, istruzione, servizi privati, come se fosse regolare che per garantirsi il salario debba sottostare a un obbligo sanitario introdotti surrettiziamente tramite uno strumento di discriminazione e criminalizzazione.

E difatti non è oggetto di protesta l’invereconda imposizione che consiste nell’impegnare i cittadini nella sottoscrizione di un debito oneroso (122 miliardi) e condizionato, con 528 capestri, alla rinuncia di diritti e prerogative, in virtù di una governance  che già conosciamo, l’austerità, che si dovrà pagare con sangue, libertà e indipendenza, contratto con una cupola di strozzini, che ha commissariato il Parlamento e che ha già ottenuto i primi risultati con due delle “riforme” pretese.

Si tratta di  quella che ha inteso promuovere la semplificazione in materia di contratti pubblici e in materia ambientale, ad esempio per “snellire” le verifiche antimafia e la valutazione di impatto ambientale e il rafforzamento di quella  a scadenza annuale per il mercato e la concorrenza, catalizzatrice di misure destinata a realizzare la distopia neoliberale, secondo la quale l’inclusione sociale discende dall’inclusione nel mercato e che, in ragione di ciò, deve consegnare beni comuni, servizi, stato sociale ai privati, rimuovendo le residue forme di regolamentazione che potrebbero impedire all’esercizio del profitto di esprimersi in maniera piena e  appagante.

Altrettanto si trascura che mentre disoccupazione, povertà e precarietà aumentano,  lo Stato riduce il suo sostegno all’economia: il Documento Programmatico di Bilancio conferma che le “sovvenzioni” del Recovery Plan  contribuiranno nel 2022 per lo 0,7% del PIL (la misura che intercetta la quantità ma non la qualità della crescita), una quota cioè irrilevante rispetto alla contrazione del disavanzo primario del 3,3% (dal 6% al 2,7%) decisa dal Governo Draghi rispetto alla scorsa finanziaria.

Si tratta di un taglio degli investimenti che potrebbero finanziare sanità, istruzione, spesa sociale e previdenziale, le nostre vite, insomma. E si omette che il Nadef (Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza) chiarisce senza ombra di dubbi  che il volume di  risorse che lo Stato inietterà nell’economia per sostenere redditi e lavoro, si assottiglierà di anno in anno, fino a tornare ad una cifra prossima allo zero già nel 2024.

E forse è solo una coincidenza, come ha osservato qualcuno, che in un paese in cui non solo esistono una miriade di contratti collettivi nazionali diversi (900) ma anche milioni di lavoratori fuori dalla contrattazione collettiva, sfruttati con stipendi da fame e zero diritti, la manovra  sia stata approvata proprio nel giorno in cui la Riello chiude la fabbrica di Pescara per trasferirsi in Polonia.

Eppure dobbiamo aderire a questo sciopero contro il regime perché più siamo e più contiamo nel denunciare il collaborazionismo e il tradimento.