Sibari, la vergogna: Parco archeologico abbandonato tra stagni ed erbacce

FOTO DI ANDREA PIRRI

Fonte: Linkiesta (https://www.linkiesta.it/)

Per arrivarci, si rischia di fare più volte avanti e indietro sulla statale 106 ionica calabrese, senza trovarlo. Solo aguzzando la vista, alla fine si intravede finalmente tra la vegetazione il cartello bianco “Parco archeologico di Sibari”. Il parco è stato appena segnalato da “Italia Nostra” tra i sette siti culturali più in pericolo di tutta Europa (“7 Most Endangered 2020”). E tra i motivi c’è anche la “segnaletica stradale poco efficace”. Cosa non di poco conto, visto che l’unico modo per raggiungerlo è l’auto. Non esistendo alcun collegamento tra la stazione ferroviaria della cittadina ionica e quello che è uno dei siti più ricchi ed estesi della Magna Grecia.

Ad accogliere nel “Parco del Cavallo” i pochi visitatori delle giornate assolate di agosto, una struttura grigia di cemento, con tanto di colonnato, aria condizionata e panchine, frutto dei 26 milioni di finanziamenti arrivati dopo l’alluvione del 2013. Quando l’acqua mista a fango del fiume Crati, che lì vicino ha la sua foce, ricoprì i resti dell’antica città di Sibari e i vigili del fuoco navigavarono sugli scavi con un gommone.

Ma sei anni dopo, di quei milioni di euro, non resta che questa struttura grigia mezza vuota. Una cattedrale nel deserto, abitata da due custodi in attesa di qualche turista, in un’atmosfera che ricorda la Fortezza Bastiani di Dino Buzzati. E alle spalle della “fortezza”, si apre lo spettacolo che nessun visitatore, dopo aver pagato il biglietto di 5 euro, si augurerebbe mai di vedere: per quasi i due terzi, gli scavi della grande polis di Sibari fondata nel 720 a.C., sulla quale prima venne costruito il centro ellenistico di Thurii e poi quello romano Copia, appaiono per gran parte ricoperti da erba alta e acqua stagnante.

IMG 8381
(Foto: Andrea Pirri)

Le pompe idrovore gialle, che si snodano tra le antiche botteghe e i pavimenti a mosaico, non ce la fanno più a drenare tutta l’acqua che arriva dalle falde. Avrebbero bisogno di manutenzione. Ma per la manutenzione servono soldi, che qui non arrivano. Stesso discorso per il taglio delle erbacce, arrivate ormai alla stessa altezza dei pochi cartelli illustrativi rimasti in piedi.

Il rantolo delle pompe che a fatica tirano l’acqua dal suolo accompagna i visitatori. Tra l’erba si intravede qualche bidone d’emergenza posizionato per far scolare quello che esce da un tubo. Mentre sotto il sole di un mezzogiorno agostano, due operai falciano l’erba ai piedi di due colonne corinzie. «Ma lì in fondo, dove c’è l’acqua, non possono andare a tagliarla», spiega il custode. L’acqua ricopre l’intera strada romanda d’ingresso dalla Porta Nord. E altri acquitrini si vedono sparsi lungo tutto il parco, che si estende per 168 ettari.Nonostante gli oltre 18 milioni di euro destinati alle cosiddette “trincee drenanti”, l’area continua a essere alla mercè delle acque del fiume Crati, che esonda spesso e volentieri a causa di argini non curati. Ogni anno, in autunno, gli scavi puntualmente si allagano. È successo anche lo scorso ottobre, e non a causa del fiume, ma per le forti piogge. Tant’è che la procura di Castrovillari ha aperto un’inchiesta per capire come siano stati spesi i milioni di euro arrivati qui dopo il 2013.

Il sito è aperto alle visite solo per l’osservazione dall’alto. Vietato scendere lungo le scalette di legno, un tempo percorribili per accedere al parco e ormai infestate dalle erbacce. «C’è acqua ed erba alta. Per ragioni di sicurezza bisogna restare su», spiega il custode all’ingresso.

La media è di una cinquantina di visitatori al giorno. Troppo pochi per rendere appetibile qualsiasi gara d’appalto per l’affidamento del bar e del bookshop previsti nei progetti iniziali all’interno della struttura di accoglienza. L’unica speranza di refrigerio per i visitatori è un distributore di bibite fresche posizionato in una grande stanza vuota.

E lo stesso vale per il museo archeologico annesso. Annesso si fa per dire, visto che tra il parco e il museo corre la statale 106. Una stradina sterrata che collega i due siti c’è, ma è troppo lunga da fare a piedi, soprattutto quando si superano i 30 gradi. Così per spostarsi al museo, bisogna riprendere la macchina e percorrere due chilometri.

I pochi turisti che si vedono entrare nel museo escono di corsa dopo pochi minuti. Già nella seconda sala, tra anfore e busti di marmo, l’aria si fa irrespirabile e le temperature cominciano a salire. “L’aria condizionata non è in funzione per motivi tecnici”, recita un cartello accanto alla biglietteria. Il motivo, però, è sempre lo stesso: c’è bisogno di manutenzione ai condizionatori, ma non ci sono i soldi.

Alle pareti del museo si vedono le ricostruzioni dell’antica città. Gli scavi visibili a occhio nudo sono solo una piccola parte, circa il 4%, dell’antico centro della Magna Grecia che si estendeva su una superficie di circa cinquecento ettari e contava una popolazione di almeno 100mila abitanti. Perché qui, raccontano tutti, basta sollevare la terra per piantare un pomodoro per trovare anfore e suppellettili.

Le immagini nel museo mostrano la grande domus con i mosaici, i marmi e le pareti affrescate. E ancora la struttura semicircolare del teatro, le terme e la piscina. E bisogna fare un grande sforzo per immaginare che tutto questo si trova lì, nel parco archeologico, abbandonato sotto le erbacce e gli acquitrini, tra le rane e le libellule.

La scelta di inserire il parco archeologico di Sibari tra i sette siti culturali più in pericolo d’Europa è finalizzata peoprio ad «aumentare l’attenzione mediatica sugli scavi», ha spiegato Angelo Malatacca, presidente della Sezione di Trebisacce di Italia Nostra. La rosa completa dei sette siti verrà resa nota da “Europa Nostra” nel marzo del 2020.

L’antica Sibari venne distrutta e ricostruita per ben due volte. Ma là dove non riuscì il campione olimpico Milone, che deviò il Crati e sommerse la città, i fasti di Sibaris potrebbero ora soccombere per mano dell’incuria umana.