Spezzano Sila, la devozione non s’impone: vergognatevi

 +++CHARITAS+++

di Giamnaria Bafaro

«Oh, ma certo, ho capito: tu pensi che questo non abbia nulla a che vedere con te. Tu apri il nostro convento e scegli, non lo so, di sostituire quella finestra del ‘700 sulla facciata con una vetrata contemporanea di dubbio gusto, di modificare un Gloria dialettale vecchio di secoli e altre devozioni per esempio, perché vuoi gridare al mondo che tu ti prendi troppo sul serio per curarti del pensiero di circa 3 o 4 migliaia di parrocchiani, ma quello che non sai è che quella finestra, quel Gloria, quelle devozioni non sono semplicemente devozioni, non sono vuote parole, non sono semplici fuochi d’artificio ma sono effettivamente parte della Cultura di una comunità e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che furono i nostri padri e le nostre madri fin dal XV secolo a realizzare tutto questo e poi fummo noi e i nostri padri nei secoli successivi se non sbaglio a proporre modifiche, migliorie e arricchimenti al convento, alla festa, alle devozioni. E poi tutte queste cose si sono assestate in qualche intoccabile angolo della Storia, dove evidentemente tu le hai pescate senza riflessione nel cesto delle cose da distruggere dando ad esse gli ultimi colpi di grazia. Tuttavia quella finestra, quel Gloria, quei fuochi rappresentano migliaia di persone nei secoli e migliaia di cuori veramente devoti, e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinto di aver fatto una scelta che non offende nessuno, quindi effettivamente stai intervenendo su qualcosa che è stato scelto e selezionato per te dalle persone qui presenti e dai loro antenati in una pila di finestre, di preghiere e di devozioni possibili».
(Semicit. Il Diavolo veste Prada)

E ora seriamente, cari tutti, una lunga (perdonatemi) riflessione.

A Spezzano della Sila c’è un problema.
Di cosa stiamo parlando?
Stiamo parlando di qualcosa di molto semplice: la gestione autoritaria e autoreferenziale di un patrimonio storico, religioso e di devozione proprio di una comunità parrocchiale, di un popolo e di centinaia di devoti che coltivano tradizionali forme di devozione.
Gli spezzanesi venerarono l’eremita come un santo già in vita, risposero al suo arrivo mobilitandosi in massa per aiutarlo e sostenerlo nella costruzione del convento. Nei secoli successivi poi continuarono ad esprimere la loro devozione con continui interventi di rimaneggiamento, arricchimento e manutenzione dell’edificio e istituzione di solenni e dispendiosi festeggiamenti.
Il legame con le tradizioni è quindi fortissimo, fonte di identificazione e identità per gli abitanti.

E qui nasce e cade tutta la questione: dalla mancanza di rispetto per il patrimonio spirituale e tradizionale di una intera comunità, continuamente imposta, ostentata e quasi promossa nei decenni (e ora al suo culmine) come “un bene e una maggiore spiritualizzazione dei festeggiamenti”.
Ma c’è un piccolo problema di partenza: la spiritualità e le forme di devozione non si impongono. E pare che questo non sia chiaro al parroco e non sia chiaro a chi lo sostiene, in particolare a quegli spezzanesi suoi collaboratori cofirmatari del programma dei Festeggiamenti.
In ballo per gli spezzanesi non c’è solo “u sparu”, il bacio del cappuccio o il canto del tradizionale gloria del Rosario dialettale (cambiato senza riguardo per la storia, il significato di quelle parole e per chi da secoli le pronuncia). In ballo per gli spezzanesi c’è la propria identità di cittadini, di devoti e di comunità.
Certo, il parroco ha grandi meriti nel processo di recupero del Convento come luogo di spiritualità e storia francescana.

Ma a nulla vale rimettere insieme pietre e stucchi e reliquie quando si uccide e si inibisce lo spirito che quelle pietre le ha innalzate a formare una Casa, che quelle reliquie le riconosce e venera e che quegli stucchi li ha pensati e creati “a onore e gloria ‘e Sa’ Franciscu e Paola”, come si usava dire un tempo. Gli spezzanesi non strepitano per nulla.
Gli spezzanesi strepitano perché gli si stanno togliendo le parole e gli atti che tradizionalmente hanno utilizzato per esprimere la propria gratitudine verso qualcuno che tanto ha fatto e tanto amore ha lasciato a Spezzano della Sila. Qui il conflitto non è tra un parroco e il popolo di una parrocchia. Qui il conflitto è tra gli organi parrocchiali e le visioni delle cose da essi proposte (non discusse, non mediate e non pensate in un’ottica di comunità ma di autocrazia) e un popolo che NON VUOLE, NON DEVE E NON PUÒ rinunciare ancora una volta alla propria storia e alle sue espressioni esteriori, alla storia di quei padri e di quelle madri che tanto hanno fatto per la promozione della spiritualità minima e della devozione verso chi li ha amati, li ha aiutati, li ha sostenuti.
Vorrei poi ricordare a tutti che all’ingresso del Convento sono poste diverse lastre con una lunga fila di nomi e di cognomi spezzanesi: sono i nomi e i cognomi di quegli spezzanesi che hanno curato, rimaneggiato e sostenuto in più occasioni gli interventi necessari per il mantenimento, l’abbellimento e l’arricchimento del Santuario. Sono i nomi dei nostri padri, delle nostre madri che ci hanno consegnato e donato qualcosa da custodire e consegnare a nostra volta, qualcosa che è una struttura, uno spazio, ma che è soprattutto una Storia, una Identità, uno Spirito di cui nessuno può disporre liberamente, neanche il parroco e Rettore del Santuario, neanche il Vescovo, neanche noi cittadini più o meno devoti, semplici custodi e “traditores”, consegnatari di esso a chi verrà dopo di noi.

In spirito di costruttivo confronto e non di sterile e irriguardosa polemica, vorrei anche fare una breve riflessione sulla processione.
Cosa abbiamo visto domenica? Oltre a uno spiacevole episodio che esula dalle sane e rispettose modalità di manifestazione del dissenso (modalità che forse però non caratterizzano nessuna delle parti coinvolte) abbiamo assistito solo ad un fallimento totale.
Dopo la pessima gestione di tutta la processione, che si è ridotta per motivi tecnici non risolti da nessuno a una lunga serie di preghiere mancate e a un salotto in passeggiata, la mancanza della solennità dell’atto di affidamento e dello spettacolo pirotecnico in piazza non ha fatto altro che precipitare nel caos più totale il momento religioso del passaggio per il corso principale.
A ben vedere, questa mi pare essere la dimostrazione che la preghiera comune declamata dal sacerdote (che si è sempre svolta in un silenzio da record) e lo spettacolo pirotecnico seguente, invece di dare luogo a «un fuggi fuggi generale per andare a vedere i fuochi» (cito quasi testualmente) , creassero invece un’occasione di reale condivisione e solennità che quest’anno è venuta del tutto a mancare.
Insomma: è statu tuttu ‘na vrigogna.