Stefano Cucchi: ora (finalmente) lo vediamo tutti

di Selvaggia Lucarelli

Ho visto il film su Stefano Cucchi, “Sulla mia pelle”. Era l’una di notte, ero stanca, avevo la sveglia presto, mi ero ripromessa di vederne dieci minuti e di continuare il giorno dopo. E invece non ho potuto smettere.

È un film con la rara capacità di raccontare una storia che si presta a trincee e tifoseria, senza accendere sentimenti facili. Non c’è l’eroe disegnato da buono e non c’è neppure il cattivo disegnato da aguzzino perfido. Manca la scena del pestaggio, che è il centro di tutto, perché non è un film che parla di presenza.

È un film che parla di assenza. Di mancanza di attenzione, di senso del dovere, di umanità. Stefano Cucchi galleggia per giorni in una realtà distratta, in cui lui è quasi un fantasma, in cui in ogni passaggio, da quello col giudice a quello in ospedale, diventa sempre un po’ più trasparente, un po’ più inutile, un po’ più avulso. Un po’ più alieno, verrebbe da dire, e coi suoi occhi pesti, lividi, gonfi che conosciamo per le sue foto in obitorio, un alieno, mentre si stava spegnendo, lo sembrava davvero.

È un film in cui si comprende perché, anche dopo la morte di Stefano, Stefano ha continuato ad essere per tanti “solo un drogato”.
Perché non era un grosso criminale, un assassino, un pericoloso delinquente che un giudice, un dottore, un poliziotto avrebbero forse guardato negli occhi con curiosità e interesse. Era, per tutti, un derelitto, uno scarto, un essere superfluo. Solo un drogato. Neppure troppo simpatico, perché Stefano stava alle regole del quartiere, le botte se l’era prese in silenzio, come se in qualche modo, in un mondo di guardie che rincorrono e ladri che scappano, una volta catturato, a lui quelle botte spettassero.
Non ci si affeziona a Stefano, in questo film. Ci si affeziona alla sua invisibilità. Non si odia solo chi l’ha picchiato. Si odia, soprattutto, chi l’ha attraversato, senza mai guardarlo, senza mai fare domande. Si odia chi si è accontentato delle sue poche risposte.

C’è poi la famiglia di Stefano, raccontata con rispetto e pudore. L’inevitabile, mancata comprensione della tragedia che si stava consumando. Le visite all’ospedale negate con pretesti burocratici, la bolla di inconsapevolezza, i primi sospetti e infine l’obitorio in cui Stefano giace. In cui Stefano ritrova la carne, la forma, la luce. In cui Stefano torna visibile per qualcuno. Per chi l’ha amato, per chi ha amato quell’essere fragile, imperfetto e sfortunato che è stato.

Alessandro Borghi (definitivamente tra i migliori attori in circolazione) riesce nell’impresa complessa di strapparsi qualcosa di dosso scena dopo scena. Di togliere parole, vitalità, respiro allo Stefano che si sta consumando. Che sta sparendo. Jasmine Trinca ha l’aria severa e la sguardo bello, limpido di Ilaria. Di chi non ha permesso che Stefano fosse dimenticato, dopo che era stato dimenticato.
Max Tortora è l’omone che abbraccia il figlio senza rimproveri, che ama Stefano come si ama un figlio, con la sua fragilità, con la sua vita disgraziata.
Si piange, alla fine. Ma più ancora si soffre. Si vive l’agonia. Si prova il desiderio doloroso di essere colui che finalmente alza il lenzuolo e si prende cura di Stefano. Si accorge di lui.
E invece Stefano muore.

Il dopo lo conosciamo.
Anzi no, quello è un film che va ancora scritto.
E forse adesso -grazie a questo film onesto e dolorosamente asciutto- per assistere al finale, le sale sono finalmente un po’ più piene. C’era un modo più facile per scrivere questo film, ma la scelta coraggiosa di scriverlo così, ha fatto in modo che Stefano -ora sì- lo vediamo tutti. Grazie.