Tesoro di Alarico, il blitz Occhiuto-Luttwak al Corsera

Occhiuto e Luttwak
Ritorniamo sulla questione del tesoro di Alarico. Non lo facciamo per entrare nel merito ma per chiarire alcuni aspetti che, in effetti, hanno creato più di un dubbio. A dare risalto alle manovre di Occhiuto è stato il “Sette” del Corriere della Sera. Ma in tanti ricordano, qui a Cosenza e non solo, che è stato proprio il Corriere della Sera, attraverso gli interventi di Gian Antonio Stella a bollare come una “boutade” la storia del tesoro di Alarico. Di conseguenza, dev’essere accaduto qualcosa in questi delicati equilibri giornalistici.
Poichè facciamo questo mestiere da (qualche) anno, ci siamo messi all’opera e abbiamo cominciato a capire. L’estensore dell’articolo è Francesco Battistini, inviato speciale del Corsera per il settore Esteri, che vanta al suo attivo, tra le altre cose, quattro anni di corrispondenza a Gerusalemme, dove ha lavorato molto sulla questione mediorientale ed è diventato grande amico, indovinate di chi? Ma di Edward Luttwak, di origine ebraica, economista, politologo e saggista molto vicino all’intelligence americana (è consulente militare del Pentagono) e soprattutto grande appassionato del mito di Alarico, tanto da avere esternato in più di un’occasione anche davanti al sindaco Occhiuto il suo impegno nella ricerca del tesoro.
E l’intervento di Luttwak in questa vicenda non è per niente bello. Basta pensare agli annunciati droni israeliani – per qualche giorno non impegnati evidentemente a cercare ragazzini palestinesi armati di fionde – e a consulenti militari quantomeno in odore di Mossad (servizi segreti israeliani, per chi non lo sapesse…).

In sostanza, un blitz giornalistico in piena regola… Nel fare i complimenti al sindaco per questo “colpaccio”, riteniamo doveroso anche ricordare cosa aveva scritto in passato, sull’argomento Alarico, Gian Antonio Stella.

Gian Antonio Stella
Gian Antonio Stella

«Saccheggiò Roma». «No, è storia». Cosenza divisa

di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 03.07.2013)

“Raccolta, pertanto, una schiera di prigionieri in catene, scavano in mezzo all’alveo il luogo della sepoltura, tumulano Alarico nel centro della fossa con molte ricchezze, riportano il fiume nel suo alveo e, affinché il luogo non sia riconosciuto da alcuno, uccidono tutti gli scavatori”.

Così il De origine actibusque Getarum di Jordanes, scritto verso la metà del V secolo d.C., descrive la sepoltura nel letto del “Busento presso la città di Cosenza” del condottiero dei Visigoti che nel 410 aveva saccheggiato Roma. Uno degli eventi più traumatici del mondo antico.

Qualche tempo dopo, Paolo Diacono confermava.

“I Goti, deviando il fiume Busento dal suo alveo con il lavoro dei prigionieri, seppelliscono Alarico con molte ricchezze nel mezzo dell’alveo e restituendo il fiume al proprio corso, uccidono i prigionieri che avevano partecipato, affinché nessuno potesse rilevare il luogo”.

Che senso ha che i nipoti di quei poveretti massacrati ricordino in pompa magna il massacratore?

La-leggenda-di-re-Alarico

La polemica, che va avanti da tempo, è stata riaccesa giorni fa da un annuncio del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto: recuperati 7 milioni di euro, il vecchio e brutto hotel Jolly sta per essere abbattuto. Dopo di che, risanata l’area, sarà costruito un museo in onore di quel barbaro nato nel delta del Danubio che dopo avere comandato per conto di Roma le truppe mercenarie in Pannonia, si rivoltò contro l’impero e finì per marciare sulla città eterna e devastarla per poi calare con le sue truppe verso la Sicilia. Fermato solo dalla morte causata, pare, dalla malaria.

Come ha visto riapparire “il fantasma di Alarico”, che “sembrava fosse tornato a riposare per sempre” dopo le improvvide celebrazioni del 2010 in occasione del 16º centenario, lo storico Antonio Battista Sangineto, alla testa di altri concittadini perplessi, è saltato su indignato.

“Perché festeggiare un invasore, saccheggiatore, violentatore, assassino, ma, soprattutto, perché celebrare, intitolando loro una piazza, persino quei Visigoti che trucidarono, 1600 anni or sono, centinaia di nostri progenitori?”.

Che Alarico sia un mito per altri, per carità, è comprensibile. Si pensi alla poesia di August von Platen tradotta da Giosuè Carducci: “Cupi a notte canti suonano / Da Cosenza su ’l Busento, / Cupo il fiume gli rimormora / Dal suo gorgo sonnolento. // Su e giù pe ’l fiume passano / E ripassano ombre lente: / Alarico i Goti piangono / Il gran morto di lor gente”.

Ma la fama mondiale di cui gode il barbaro Alarico, “in particolar modo fra quei suoi discendenti tedeschi che hanno ripreso a disprezzarci”, accusa Sangineto, “non può costituire la spinta propulsiva, il riferimento culturale e identitario di un progetto museale che attragga turismo culturale”. Non sarebbe il caso, piuttosto, di “risvegliare nell’anima dei calabresi la capacità di riconoscere la bellezza e l’armonia dei monumenti, delle città e dei paesaggi”?

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Un’obiezione sacrosanta. Che già aveva spinto lo storico a scrivere Alarico e la piccola borghesia, un saggio contro l’appropriazione incolta di quel personaggio storico defunto per caso in Calabria: “Cosa spinge, oggi, un gruppo di cosentini a costituire un’associazione intitolata Circolo Alarico, un centro di analisi cliniche, un ristorante, una società di distribuzione dei farmaci e una pizzeria dedicati al condottiero goto, manco fossero tutti romantici prussiani, nostalgici di un rimpianto splendore barbarico?”.

E giù numeri, fatti, episodi, per ricordare come l’Europa, travolta la civiltà romana, fosse piombata nel buio (e qui qualche storico non sarà d’accordo) del medioevo. Al punto che perfino l’uso della scrittura, “diffusissimo in età romana”, finì per perdersi tanto che “addirittura Carlo Magno, secondo il suo biografo Eginardo, teneva sotto il letto alcune tavolette per potersi esercitare a padroneggiare l’alfabeto, fra VIII e IX secolo d.C.”.

Al di là del caso di Alarico, però, secondo lo storico, esisterebbe un problema di fondo: la “sindrome di Stoccolma collettiva” dovuta alla perdita della memoria storica. Marcata fisicamente anche dai disastri paesaggistici degli ultimi decenni: “L’abitudine alla bruttezza dei luoghi genera disarmonia, incuria e disordine, incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto”.

Ed ecco, insieme con la rivendicazione dell’identità che “si traduce nelle sagre della polpetta o della patata, nei palii meta-medioevali o nelle fiere strapaesane” e mai nel rispetto e nel recupero dei propri tesori storici e culturali, l’esaltazione acritica di questo e quel personaggio del passato, dove l’uno vale l’altro. Come Dorghut Rais, noto ai calabresi come Dragut, che fu Viceré di Algeri e Signore di Tripoli e saccheggiò San Lucido e Paola. O il calabrese Giovanni Dionigi Galeni, nato a Isola Capo Rizzuto, che dopo essere stato rapito dai saraceni ed essersi convertito prendendo il nome di Ulug Alì Ucciali diventò generalissimo e governatore di Tripoli e Tunisi e partecipò, da nemico dell’Occidente, alla battaglia di Lepanto: due uomini che “parrebbero non avere alcuna relazione con Alarico se a Dragut non avessero intitolato un ristorante a San Lucido, il paese da lui devastato, e se a Uccialì non avessero eretto una statua nella piazza principale, a lui intitolata, di Isola Capo Rizzuto”.

E torniamo al tema: “Perché Alarico e gli altri invasori hanno avuto tanta fortuna presso i discendenti di coloro che da essi sono stati invasi, tratti in catene, violentati, saccheggiati, derubati, orribilmente torturati, trucidati? Cosa spinge la psicologia collettiva di un popolo a identificarsi, pur se parzialmente, con i propri carnefici?”. Se ne stupì, un secolo e mezzo fa, anche Alexandre Dumas. Meravigliato che l’unico albergo di Cosenza fosse stato chiamato “Al riposo di Alarico”. Con il nome, annotò lo scrittore francese, “del depredatore del Pantheon e del distruttore di Roma”.

india

L’unica spiegazione, nel caso del re dei Visigoti, è forse nelle leggende intorno al favoloso tesoro che sarebbe stato con lui sepolto. Per secoli l’hanno cercato in tanti: archeologi, storici, cultori dei miti antichi, versioni varie di Indiana Jones e perfino Heinrich Himmler, di passaggio in Italia, volle spingersi fino a Cosenza (dove le cronache ricordano che salutò “romanamente” il fiume) per informarsi meglio sulle ricerche di una studiosa francese, Amélie Crevolin, convinta di aver individuato infine il luogo della misteriosa sepoltura. Una delusione.

Così come restò deluso, nella primavera del 1965, il signor Adolfo Greco, di professione rabdomante. Che comunicò al mondo la sua scoperta: il tesoro l’aveva individuato lui. Col bastone biforcuto. Ma, ahimè, nessuno lo prese sul serio…

Gian Antonio Stella