Za Peppa, come nasce una mafia

LA STORIA:

ZA PEPPA

All’inizio del ‘900, Francesco De Francesco, soprannominato “Za Peppa”, è il primo vero boss della malavita di Cosenza. Sua sorella Agatina amministra le casse, in collaborazione con il fratello, Giuseppe De Francesco. Don Stanislao De Luca alias “don Stanu”, è il signorotto borghese, colluso in tutto e per tutto con il boss, che lo legittima mentre Francesco Cundari e Tommaso Grisolia sono il suo “braccio armato”. Un certo Clausi è incaricato di allargare l’organizzazione ai paesi vicini. Diego Salvati recluta i picciotti.

Claudio Dionesalvi ha raccontato nel suo “Za Peppa, come nasce una mafia” (Coessenza) l’epopea di Za Peppa e le origini della malavita cosentina.

In città il clan di “Za Peppa” domina incontrastato. E’ una criminalità organizzata che spesso si affidava a uomini goffi e a sicari improbabili, eppure coltellate e agguati sono all’ordine del giorno. Specie per chi non paga il “pizzo” alla banda. “Za Peppa” e “Don Stanu” spadroneggiano per le vie della città con fare baldanzoso e ostentando lusso.

Intorno a loro girano decine di affiliati come De Fazio, Chiodo, Galasso, Salerno e Pizzarelli.

Il processo contro “Za Peppa e i suoi accoliti fu il primo evento di cronaca giudiziaria del XX secolo (1903). Si scoprono, dalla lettura degli atti, i luoghi abituali dei ritrovi del clan: il Vallone di Rovito, il Vallone di Rovella, San Vito, la Riforma, Panebianco.

“… Fu il “processo” alla malavita. Cento e più imputati alla sbarra; un collegio difensivo numerosissimo con le migliori rappresentanze del foro cosentino; una folla traboccante di parenti, amici e conoscenti degli imputati; curiosi; osservatori; stampa locale (una falange di avvocati scriveva il Giornale di Calabria)…

Per la prima volta si discuteva l’ipotesi di un reato di natura associativa e si poneva per la prima volta in termini netti il quesito di quali fossero in città le radici indigene o indotte della malavita cosentina. Sia pure a livelli nascenti, ci si trovava di fronte a una organizzazione criminale che era già in espansione costante, un’organizzazione gerarchizzata capace di affiliare e spremere risorse dalle attività economiche e di produrre violenza. Tale straordinario evento era stato originato da una serie impressionante (avvenuta nel biennio 1900-1902) di furti, estorsioni, risse, accoltellamenti, sfregi per una media di 8-10 fatti di sangue rispetto agli 1-2 omicidi di fine secolo in città…”.

Ritornando alle origini del fenomeno, c’erano due scuole di pensiero. Una, facente capo a L. A. Caputo, che la riportava sul Giornale degli economisti, riteneva che la malavita cosentina fosse stata importata dagli operai dell’impresa ferroviaria Aletti, reggini e siciliani, impegnati nella costruzione della ferrovia. E che si fosse consolidata con il trasloco dal carcere di Reggio a quello di Cosenza dei detenuti dopo il terremoto del 1908.

L’altra riteneva invece che non fosse affatto da sottovalutare l’elemento autoctono ovvero il brigantaggio, che voleva dare il via a una redistribuzione forzosa della ricchezza, una sorta di lotta di classe.

“… Celebrato dal 19 gennaio al 27 marzo 1903 nella Corte d’Assise di Cosenza, il dibattimento impegnò tutti gli avvocati del locale foro, alcuni dei quali (Luigi Fera e Nicola Serra su tutti) si coprirono di gloria con le loro poderose arringhe difensive… Il clamore per quel processo fu certo alla base dell’agitazione degli avvocati contro il progetto di riforma giudiziaria dell’aprile 1903 che minacciava di declassare il tribunale locale al rango di semplice pretura… L’economia della mercantile, agricola e aristocratica città di Cosenza stava subendo l’attanagliarsi dell’idra delinquenziale. Le parole del giudice inquirente suonano come una sorta di brusca apertura processuale al XX secolo, un allarme forse anche prevedibile…”.

“… Molti dei detenuti in attesa di giudizio erano stati arrestati e trasferiti al carcere legati ai cavalli della gendarmeria equestre come “polli viaggianti nei vagoni-stiva dei treni merci”. C’era una finalità esemplare in tutto ciò: quella di dare visibilità a un potere centrale che una malavita ancora rozza, rusticana, per alcuni versi folkloristica, non avrebbe potuto incrinare agendo su scala strettamente locale. Ed è a questo punto che è il caso di allargare i termini dell’analisi riprendendo il pensiero del procuratore della mala cosentina di cento anni fa. La componente indigena, più che dai trasferimenti da altre carceri, era stata influenzata nell’affiliare, nell’agire, nell’atteggiarsi e nel sanzionare dalla camorra.

Erano “GUAPPARIA” i personaggi che sfilavano nelle aule a Colle Triglio. Le condanne, più che esemplari erano riportate sul Giornale di Calabria del 29 marzo 1903. La requisitoria aveva colpito giusto nella corte. Per diversi anni, dopo quei fatti, non si sarebbe registrato alcun perturbamento sociale di tale portata dell’ambiente cittadino”.

(Silvana Palazzo, “Un Centro per la legalità”)

“Za Peppa” e Don Stanislao De Luca scontano quasi dieci anni.

“Za Peppa” muore assassinato il 10 aprile 1913 in via Rivocati. Lo uccide un socialista senza macchia e senza paura, Riccardo Pranno. Oltre all’ideologia, li divideva anche una donna, che si contendevano: Francesca Tripodi di Filadelfia (nel Vibonese), detta “a Pacchiana”. Riccardo Pranno era stato spalleggiato dai fratelli Luigi e Pasquale. A difendere i Pranno davanti alla giustizia sarà Pietro Mancini, futuro deputato e statista socialista, che otterrà la loro assoluzione per legittima difesa e li farà accogliere dalla banda musicale alla loro uscita dal carcere.