(di Isaia Sales – repubblica.it) – Lo Stato italiano non ha ancora vinto la sua guerra contro le mafie a più di un secolo e mezzo dalla sua formazione. Dal 1861 in poi è stata debellata qualsiasi forma di criminalità oppositiva allo Stato e alle sue leggi, ma le mafie non ancora. Anzi, esse si sono “allargate” negli ultimi decenni e dagli insediamenti storici insulari e meridionali (che sembravano invalicabili) stanno da tempo dilagando in territori prima mai interessati dalla presenza di questa particolare forma di violenza organizzata. Si deve parlare, dunque, di successo delle mafie anche dal punto di vista della espansione geografica. La loro riuscita nazionalizzazione, cioè la loro diffusione in quasi tutto il territorio italiano, è sicuramente il fenomeno politico-criminale più significativo dell’ultimo trentennio in Italia. I mafiosi non sono più degli estranei nella società del Nord.
Chi poteva mai immaginare fino a qualche decennio fa un radicamento così vasto delle mafie meridionali in tutto il Nord, compresa una parte non secondaria del centro Italia, a partire dal Lazio? Un radicamento che ha trovato conferma in diverse sentenze dei tribunali, in dettagliate relazioni delle ultime Commissioni parlamentari antimafia (a partire da quella licenziata nel 1994), in rapporti delle forze di sicurezza, in numerosissimi libri di inchiesta e di analisi che sono stati pubblicati negli ultimi anni. È sicuramente il radicamento nel Centro-Nord il fenomeno criminale più rilevante, più inaspettato, più negato e poi più sottovalutato della storia recente delle mafie in Italia.
Il fatto che le mafie fossero rimaste confinate per un più di un secolo dalla loro nascita solo in alcuni territori meridionali (la Sicilia, la Calabria e la Campania) non voleva affatto indicare la loro perifericità o men che mai la loro estraneità alla storia nazionale e alle principali vicende che ne hanno segnato le tappe: è indubbio che senza il sostegno ai vari governi da parte di deputati eletti con i voti mafiosi non si sarebbero mantenuti quei precari equilibri che hanno retto le sorti della nazione, così com’è del tutto evidente che senza il sostegno delle mafie meridionali alcuni partiti politici, a partire dalla Dc, non avrebbero potuto occupare un ruolo così centrale nella storia nazionale. Ma una cosa è condizionare la storia nazionale a partire da alcune limitate zone del Paese, un’altra è farlo espandendosi in quasi tutto il territorio nazionale, anche se con intensità e radicamento differente rispetto a quello registrato nel Sud d’Italia .In ogni caso, se è l’economia del Centro-Nord a trascinare lo sviluppo economico del Paese, è indubbio che questa economia oggi vede una presenza non secondaria di varie famiglie mafiose, a partire da quelle di ‘ndrangheta e di camorra che segnano una presenza significativa in alcune di quelle regioni che rappresentano ancora oggi le locomotive dell’Italia e alcune delle aree più sviluppate dell’Europa.
Le mafie, insomma, sono presenti oggi nel cuore del sistema produttivo italiano e non solo in alcune delle sue regioni più arretrate. Di questa modifica epocale nella diffusione e nel radicamento dei fenomeni mafiosi danno testimonianza anche la letteratura e la televisione con il successo della figura del vicequestore Rocco Schiavone (creato dalla penna di Antonio Manzini) alle prese con delitti di mafia nella città di Aosta e tra le nevi della Valle omonima.
Ricordiamo qualche dato. Negli ultimi decenni ci sono state migliaia di condanne di mafiosi da parte dei tribunali del Centro-Nord. Numerosissime sono state le interdittive antimafia nei confronti di imprese che avevano partecipato a gare pubbliche per appalti o richiesto autorizzazioni per gestire ristoranti, esercizi commerciali o alberghi.
La Lombardia è oggi la quarta regione italiana per numero di beni confiscati, la quinta per numero di imprese confiscate e per numero di omicidi di stampo mafioso, mentre la sesta è il Piemonte e la settima il Lazio. Tra le province italiane a maggiore indice di presenza mafiosa (mettendo insieme delitti, scioglimenti dei consigli comunali, interdittive per le imprese e numero di processi e condanne) troviamo Roma al tredicesimo posto, Imperia al sedicesimo, Genova al diciassettesimo, Torino al ventesimo, Milano al ventiseiesimo e Novara al ventinovesimo posto su di un totale di 107. Ma il dato più impressionante lo si ricava da uno studio del professore Antonio Parbonetti dell’Università di Padova: le aziende venete a rischio di infiltrazione mafiosa sarebbero ben 30.000 su di un totale di 430.000 attive, cioè una percentuale tra il 5 e il 7% dell’intero patrimonio produttivo del Veneto, con particolare esposizione delle imprese edilizie, di quelle operanti nel settore immobiliare e nel commercio, mentre più bassa è la percentuale di esposizione tra le imprese manifatturiere.
In due dei più grandi eventi mondiali in cui è stata impegnata l’Italia negli ultimi decenni, le Olimpiadi invernali di Torino del 2004 e l‘Expo di Milano del 2015, le mafie hanno svolto un ruolo economico importante. Durante i lavori dell’Expo ci sono state più di 100 interdittive antimafia per ditte che vi svolgevano lavori. In tutte e due le manifestazioni non si può affatto dire che le mafie abbiano trovato le strade sbarrate. Anzi, ha sostenuto a ragione Nando dalla Chiesa, non esiste grande opera pubblica lombarda o fatta al Nord nella quale non ci siano imprese in odore di mafia, al punto tale che in diversi settori dell’economia del Nord esiste “un irrisolto problema di accettazione dei principi di legalità”.
In leggero aumento anche il numero di Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa. Il numero complessivo sembra apparentemente basso (appena 9, di cui 4 nel Lazio) ma se a questo numero si aggiunge quello delle richieste di scioglimento avanzate dalle prefetture e respinte dal ministero o quello degli annullamenti da parte dei Tar si arriva al numero complessivo di 21 casi. Da segnalare, sempre in Veneto, la vicenda che ha riguardato il comune di Eraclea per il quale il prefetto di Venezia aveva chiesto lo scioglimento con questa motivazione: “L’assoggettamento del territorio avvenuto in più di vent’anni di attività criminale da parte dei casalesi, ha inciso profondamente nel tessuto economico e sociale delle comunità locali. Imprese, operatori economici e cittadini sono tuttora intimiditi o comunque condizionati dall’esercizio della violenza e delle minacce durato per tanti anni. Nella comunità continuano a vivere ed operare parenti ed amici dei casalesi. Il provvedimento di scioglimento del Consiglio comunale di Eraclea si ritiene pertanto adeguato alla evidente gravità del condizionamento avvenuto, ragionevole e proporzionato in relazione all’esigenza di natura preventiva per restituire fiducia e serenità ai cittadini con una gestione commissariale neutrale rispetto ai molteplici interessi politici ed economici che hanno determinato o favorito il condizionamento mafioso.” Ma la richiesta non è stata condivisa dal Ministero degli interni, che nel 2020 rifiutava lo scioglimento del Comune di Eraclea. Evidentemente le pressioni del mondo politico veneto hanno trovato ascolto nei funzionari del Ministero: non si poteva sopportare che un Comune del Veneto finisse nella lista di quelli sciolti per mafia. Sta di fatto che poi il sindaco di quel comune è stato il primo in Veneto ad essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Aveva dunque ragione il Prefetto.
Altro esempio significativo è l’indagine “Blue Call” nella quale è emerso che una importante realtà aziendale, un call center con oltre mille dipendenti e un fatturato di rilievo, era caduta sotto il pieno controllo della famiglia di ‘ndrangheta dei Bellocco a seguito di una originaria richiesta di aiuto e protezione avanzata proprio da parte degli stessi imprenditori; il procedimento si è concluso con sentenze irrevocabili per i reati di intestazione fittizia di beni ed estorsione aggravati anche nei confronti del titolare di uno studio di commercialisti.
Oltre ai rapporti con settori economici fondamentali nell’economia del Centro-Nord, significativi sono anche i contatti con il mondo politico e amministrativo. Da segnalare due degli episodi che più hanno scosso la pubblica opinione: l’arresto nel 2012 dell’assessore alla casa della giunta regionale lombarda guidata da Formigoni, Giuseppe Zampetti, accusato di aver ottenuto 4000 voti dalla ‘ndrangheta per una spesa di 200.000 euro. L’altro caso ha riguardato un direttore generale di una Asl importante come quella di Pavia, Carlo Chiriaco, condannato definitivamente a 12 anni di carcere nel maxiprocesso denominato ‘Infinitò contro la ‘ndrangheta in Lombardia. A proposito dell’inchiesta Aemilia del tribunale di Reggio Emilia del 2015, il procuratore capo Roberto Alfonso dichiarò: “Qui in Emilia l’associazione mafiosa si muove come imprenditoria, con modalità e tecniche diverse da come si muove in altri luoghi”.
Va comunque segnalato il fatto che la presenza al Nord delle mafie è questione risalente all’immediato dopoguerra e che ha assunto nel tempo modalità diverse di manifestarsi. In un primo momento ha riguardato solo il reinvestimento di capitali illegali nel circuito finanziario (soprattutto ad opera di Cosa nostra) e solo successivamente ha assunto la funzione di stabile radicamento attraverso la comunità di immigrati calabresi (soprattutto ad opera della ndrangheta) o solo in attività di affari senza stabile organizzazione (come nel caso di alcuni clan camorristici).
Il primo delitto di mafia a Milano risale al 1954, il primo omicidio di un magistrato di un tribunale del Nord avviene nel 1983 (fu commesso a Torino, il giudice ucciso si chiamava Bruno Caccia e indagava sulla penetrazione della ‘ndrangheta al Nord). Tra il 1991 e il 1995 il numero dei mafiosi rinviati a giudizio nella sola Lombardia aveva superato le 2000 persone. La storia di Milano è intrecciata con la storia della mafia e a oscure vicende del malaffare economico. Ricordiamo il caso di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, trovato impiccato sotto un ponte di Londra, il caso della loggia massonica deviata denominata P2, il crollo della banca milanese di Michele Sindona, il coinvolgimento di esponenti di primo piano del Vaticano, l’omicidio di Umberto Ambrosoli e tanti altri episodi che hanno visto intrecciarsi l’azione dei mafiosi con quella di tantissimi “colletti bianchi”. Inoltre, la Lombardia è stata la regione che ha conosciuto il maggior numero di sequestri di persona, ben 158, superiori ai 128 registrati in Calabria.
È vero che già due siciliani illustri avevano previsto ciò che è avvenuto negli ultimi decenni. Nel 1900 don Luigi Sturzo aveva scritto: “La mafia diventerà più crudele e disumana. Dalla Sicilia risalirà l’intera Penisola per forse portarsi anche al di là delle Alpi”, anticipando di 60 anni l’analoga previsione di Leonardo Sciascia, il quale userà la metafora della “linea della palma”. Secondo tale metafora, a causa del riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme (un albero tipico dei paesi caldi, e dunque della Sicilia) sale verso il Nord di un centinaio di metri all’anno. “Per questo motivo- spiegò lo scrittore- fra un certo numero di anni vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono. Che cosa c’entrano le palme con la mafia? Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l’Italia del Nord. Tra un po’ di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al riparo da qualsiasi rischio”.
Che cosa ha impedito al mondo politico, ai mass media, agli studiosi dei fenomeni criminali, agli imprenditori e agli apparati di sicurezza di considerare le profezie di Sturzo e Sciascia come realistiche previsioni? Si potrebbe dire che non c’è peggiore cieco di chi non vuol vedere, ma sulle mafie la cecità è stata determinata da alcuni pregiudizi che hanno oscurato la realtà.
Il primo è relativo alla credenza che i fenomeni mafiosi siano frutto di una mentalità, di una cultura particolare estranea e antitetica rispetto al più alto senso civico tipico del Centro-Nord, e quindi non in grado di attecchire in territori a cultura e mentalità forgiata da un tasso di preoccupazione della cosa pubblica di gran lunga superiore a quella del Sud; il secondo (legato strettamente al primo) ha a che fare con il convincimento che le mafie siano fenomeni di realtà economiche arretrate e che non possano radicarsi in territori ad alto sviluppo industriale e produttivo; il terzo ritiene che quando i fenomeni criminali di tipo-mafioso si presentano in realtà differenti dai loro luoghi di origine, ciò è frutto solo di cause esterne (come il “soggiorno obbligato” al Nord di tanti boss mafiosi o dall’alto tasso di presenza di immigrati provenienti delle regioni a maggiore presenza mafiosa); l’ultimo riguarda il convincimento che il Nord avesse gli anticorpi sufficienti a isolare i fenomeni mafiosi al loro primo insorgere al Nord e ad emarginarli prima che potessero attecchire stabilmente.
Stando a questi convincimenti ampiamente veicolati dal mondo politico e dai mezzi di comunicazione di massa, i territori settentrionali e le loro attività economiche sarebbero stati impenetrabili alle mafie, o in ogni caso in possesso degli anticorpi necessari a limitarne la presenza e a contrastarla adeguatamente. Sono state le interpretazioni “culturaliste” e antropologiche dell’origine delle mafie a portare fuori strada coloro che avrebbero dovuto prevedere ciò che poi è successo
D’altra parte, era anche questa la valutazione della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante, la prima che pure aveva gettato l’allarme sulle sempre più consistenti presenze mafiose nel Nord, soprattutto dietro lo stimolo di Carlo Smuraglia, che aveva coordinato l’apposito gruppo di lavoro sull’argomento. Vediamo cosa è scritto nella relazione del 1994: “Può essere affermato con assoluta sicurezza che non vi sono più ormai nel nostro paese “isole felici”. Praticamente in tutte le regioni d’Italia esiste una vastissima ramificazione di forme varie di criminalità organizzata di tipo mafioso. Ma la mancanza di un diffuso consenso, la resistenza opposta da un tessuto economico-sociale complessivamente sano, la stessa esistenza di un tessuto connettivo democratico capillarmente diffuso e meno facilmente permeabile, funzionano come anticorpi ed impediscono la riproduzione delle condizioni ambientali tipiche delle zone di origine delle organizzazioni mafiose”. Le cose purtroppo non sono andate così, come ricorda Rocco Sciarrone nell’approfondito studio sulle Mafie del Nord (Donzelli, 2014). Certo, non si può affermare che le mafie abbiano un controllo capillare del territorio come avviene in diverse realtà del Sud, né che siano presenti con la stessa intensità in ogni regione settentrionale, ma gli anticorpi civili, sociali, imprenditoriali e politici non hanno affatto funzionato. Troppo ottimistiche sono state le previsioni di reazione civile della società del Nord. Lo scrive apertamente nel febbraio 2018 la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi:
“L’ampia ricognizione svolta nel corso delle missioni in tutte le regioni settentrionali ha confermato la presenza pervasiva dei clan nel tessuto produttivo delle aree più dinamiche e ricche del Paese che nel modus operandi mostrano una notevole flessibilità riuscendo a trarre vantaggi sia dalle fasi di espansione che da quelle di recessione economica. In particolare, desta preoccupazione quanto riferito da diverse procure sui rapporti di reciproca convenienza che ormai caratterizzano l’infiltrazione della criminalità organizzata nel sistema delle imprese legali. Sono gli imprenditori a cercare il contatto con esponenti della ‘ndrangheta nell’illusione di un rapporto temporaneo, finalizzato a superare una crisi di liquidità, a recuperare crediti di ingente valore o fronteggiare la concorrenza e che ben presto si ritrovano con l’azienda “spolpata” o scalata dai mafiosi. Al nord le mafie hanno trovato la disponibilità e la complicità di imprenditori e professionisti locali e un terreno di illegalità economica diffuso. Emerge insomma un’evidente liaison tra la criminalità economica e la criminalità mafiosa, liaison che nasce proprio sul territorio e perché i meccanismi utilizzati sono i tipici meccanismi della criminalità economica: evasione fiscale, frodi fiscali, corruzioni, riciclaggio”.
Quindi le mafie non hanno trovato un terreno ostile, un tessuto produttivo impenetrabile, comportamenti civici in grado di isolare i mafiosi e i loro comportamenti. È stata l’economia il principale veicolo di legittimazione dei comportamenti mafiosi al Nord, il convincimento ampiamente diffuso che i mafiosi propongano “affari” che se convenienti vanno considerati dal punto di vista economico (costi e benefici) e non dal punto di vista etico, civile o legale. Sta di fatto che al Nord c’è stata una grande preoccupazione per la criminalità comune ed è stata quasi ignorata (per un lungo periodo) quella mafiosa, perché la criminalità comune è predatoria e considerata pericolosa per la sicurezza dei singoli cittadini, quella mafiosa invece propone affari e limita al minimo il ricorso alla violenza. E quindi non suscita allarme come i furti in appartamenti, gli scippi, le rapine a mano armata.
Queste interpretazioni relative a mentalità, arretratezza e ruolo predominante dell’emigrazione erano già state smentite dal radicarsi negli Stati Uniti di numerose organizzazioni mafiose (non solo di origine italiana), e dal fatto che le mafie avevano avuto corso e fortuna in una nazione tra le più sviluppate al mondo, ad alto tasso civico, lontanissima dalla Sicilia, dalla Campania e dalla Calabria. L’impressione che nel Nord Italia si sia manifestata la stessa difficoltà di comprensione che si verificò negli Usa nella prima metà del Novecento: cioè una difficoltà a prendere atto che le mafie erano anche un problema della società americana, non un “regalo” degli immigrati.
In verità le teorie culturaliste erano state alimentate proprio dalla sociologia e dall’antropologia di scuola statunitense che, in difficoltà nel giustificare il successo delle “arretrate” e feudali mafie italiane in un Paese “avanzato” come gli Stati Uniti, avevano trovato appunto la spiegazione nel “carattere” dei meridionali esportato negli Usa, assieme al loro know how culturale. Teorie comodissime ad allontanare il sospetto che anche negli Usa si erano create quelle condizioni sociali ed economiche autoctone favorevoli al radicamento di una criminalità venuta da fuori. Così come oggi nel Nord Italia.
Era chiaro, fin da allora, che la spiegazione non risiedeva solo nei “geni” degli immigrati, ma c’entravano anche ragioni interne alla società ospitante. Infatti, in Argentina, dove pure vi era stata una fortissima emigrazione meridionale e siciliana, seconda solo a quella che si indirizzò verso gli Stati Uniti nello stesso periodo storico, non si diede origine a nessuna mafia. È del tutto ovvio (tranne per chi ha i paraocchi) che, un’offerta di prestazioni criminali, è sempre sostenuta da una domanda. Insomma, in presenza di una combinazione di fattori economici e sociali, qualunque area territoriale può alimentare le mafie. Esse possono convivere con un livello elevato di “capitale sociale”; un alto senso civico non è sufficiente di per sé a tenerle lontane. Così com’era sbagliata l’interpretazione della mafia statunitense legata solo ai flussi migratori, in particolare a quelli italiani e siciliani, così è oggi sbagliata l’analisi di una espansione delle mafie nel Nord d’Italia a causa solo delle immigrazioni dei meridionali o degli stranieri. Ci sono ragioni locali, circostanze particolari che determinano il successo delle mafie in territori non tradizionali.
Il presidente della Commissione d’inchiesta sulla mafia del Senato americano, Estes Kefauver, così si espresse nella sua relazione finale: “Queste organizzazioni criminali trovarono un Paese esposto alle forti tentazioni del denaro, attraverso il quale era permesso tutto ciò che era proibito, grazie anche alla possibilità di poter corrompere le autorità di polizia. La notizia che colpì maggiormente non fu tanto la scoperta di un manipolo di mafiosi insospettabili al di sopra dei crimini commessi tra New York e Chicago, ma il coinvolgimento in queste attività della classe dirigente”. Insomma, sono le condizioni locali a decretare il successo dell’espansione delle mafie in territori lontani dai loro insediamenti tradizionali.
Perciò è sbagliato parlare di trapianto, di contagio, di invasione o di infiltrazione delle mafie nel Nord d’Italia, ma piuttosto si dovrebbe parlare di radicamento, di colonizzazione riuscita (come la definisce Nando dalla Chiesa) o di ibridazione. Scrive Rocco Sciarrone: “Quando emergono formazioni criminali che si ispirano a metodi mafiosi oppure diventano progressivamente autonome rispetto all’organizzazione di provenienza, appare appropriato parlare di processi di imitazione e di ibridazione”. In tutti i casi, l’espansione nelle aree non tradizionali non può essere equiparata a una situazione di mera esportazione della mafia originaria. “Contano molto più l’”accoglienza” e l’”ospitalità” ricevute nel contesto di arrivo” ribadisce Sciarrone.
Certo, finora non abbiamo casi di mafiosi al Nord di origine e di famiglie non meridionali. Non abbiamo ancora una mafia autoctona del Settentrione, se si esclude quella che è stata conosciuta come “Mafia del Brenta” e quanto ha svelato l’inchiesta “Mafia capitale” a Roma. Nelle mafie al Nord dominano famiglie di origine meridionale, in particolare calabresi. Anche se riscontriamo già dei mafiosi di seconda e terza generazione, nati e cresciuti al Nord, pur se di origine meridionale. Ai fini del nostro discorso non è importante sapere chi siano i mafiosi e da dove provengano, né quantificare l’entità di questa occupazione dell’economia settentrionale, ma soffermarsi sul fatto che i mafiosi sono riusciti a radicarsi anche in un ambiente e in una società che non aveva all’origine il “virus” o i “geni” mafiosi. Sta di fatto che oggi le mafie al Nord sono stanziali, e i mafiosi non si recano nel Settentrione solo per fare investimenti con il loro danaro o immetterlo nei circuiti finanziari, come era stato fino agli anni Settanta del Novecento.
Oggi nel Nord ci vivono stabilmente, hanno intrecciato rapporti e relazioni sociali, politiche ed economiche con gli autoctoni senza incontrare particolari difficoltà e senza imbattersi in insormontabili ostacoli in una società mai stata mafiosa o accusata di esserlo stato nel passato. I mafiosi di origine meridionale fanno affari e stringono rapporti dall’interno della società del Nord, e non come corpi estranei. Essi non si muovono solo dentro la propria comunità di origine, ma riescono facilmente a ripetere le loro modalità d’azione e ad imporre il loro metodo al di fuori dell’ambiente da cui provengono. Certo i camorristi al Nord non replicano il loro modello organizzativo rispetto agli ndranghetisti, ma in ogni caso i mafiosi non sono relegati nel loro ghetto “etnico”. È questa la smentita più clamorosa degli stereotipi sulle mafie che sono stati diffusi ad arte per stigmatizzare la società meridionale come di per sé mafiosa contrapposta a una società di per sé “amafiosa” come si autodefiniva quella del Nord.
Se le mafie al Nord si sono insediate inizialmente per ragioni relative a processi migratori, si sono affermate e diffuse poi per ragioni economiche. Nel Centro-Nord chi entra in contatto con i gruppi mafiosi lo fa in base a precisi calcoli di convenienza, cioè a calcoli da imprenditore. Non si tratta affatto di un’aggressione esterna, ma di un fenomeno che ha trovato una grande disponibilità interna. In definitiva, la questione dell’espansione delle mafie al Nord pone innanzitutto il problema della incredibile ricettività che la società e l’economia del Nord hanno riservato alle attività mafiose e all’interconnessione riuscita tra domanda e offerta di attività illegali. Non sono le mafie ad aver esportato al Nord un’economia illegale, ma è stata la presenza consolidatasi nel tempo di un’economia illegale diffusa e tollerata al Nord ad avere attratto i capitali mafiosi.