Calabria. Tra fuoco e acqua… salvi per un soffio? Vogliamo la cura dei territori, non il Ponte

𝗧𝗥𝗔 𝗙𝗨𝗢𝗖𝗢 𝗘 𝗔𝗖𝗤𝗨𝗔… 𝗦𝗔𝗟𝗩𝗜 𝗣𝗘𝗥 𝗨𝗡 𝗦𝗢𝗙𝗙𝗜𝗢?

No Ponte Calabria

In questi giorni di attesa della rassicurante ‘estate settembrina’ – come è stata ribattezzata dai media – molto meno rassicurante è stata l’attesa del ‘Ciclone Daniel’ che avanzava nel Mediterraneo. Per fortuna il Sud Italia è stato solo sfiorato da questo titanico fenomeno atmosferico che, stante alle ultime notizie, ha provocato almeno 10 morti tra Grecia, Turchia e Bulgaria, regioni che 𝗻𝗲𝗶 𝗺𝗲𝘀𝗶 𝘀𝗰𝗼𝗿𝘀𝗶, 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗼 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗹𝗮 𝗦𝗶𝗰𝗶𝗹𝗶𝗮 𝗲 𝗹𝗮 𝗖𝗮𝗹𝗮𝗯𝗿𝗶𝗮, 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝘀𝘁𝗮𝘁𝗲 𝗱𝗲𝘃𝗮𝘀𝘁𝗮𝘁𝗲 𝗱𝗮 𝗶𝗻𝗰𝗲𝗻𝗱𝗶 𝗮𝗻𝗰𝗵’𝗲𝘀𝘀𝗶 𝗱𝗶 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗼𝗿𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗲𝗻𝗼𝗿𝗺𝗶. Giusto per sciorinare qualche dato, i meteorologi comunicano che in alcune aree della Grecia sono caduti in 24 ore oltre 800mm d’acqua; nel 2009, che purtroppo ricordiamo per l’alluvione, a Giampilieri ne sono caduti 250mm in 5 ore (con 37 vite spezzate).

Sarebbe bastato qualche vento un po’ più sostenuto e le piogge torrenziali che si sono scaricate sul versante orientale del Mediterraneo sarebbero arrivate anche qua: sì, è del tutto logico pensare che ci siamo salvati per un soffio!
…almeno per ora.

Giriamo per le strade, ci guardiamo intorno e quello che vediamo è… 𝗡𝗘𝗥𝗢: 𝗰𝗼𝗹𝗹𝗶𝗻𝗲, 𝗽𝗿𝗮𝘁𝗶, 𝗽𝗲𝘇𝘇𝗶 𝗱𝗶 𝗰𝗶𝘁𝘁𝗮̀ 𝘁𝗼𝘁𝗮𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗯𝗿𝘂𝗰𝗶𝗮𝘁𝗶. E il ricordo di quei giorni in cui molti di noi hanno visto calare la notte alle cinque di pomeriggio o si sono trovati con le fiamme che sorpassavano in altezza i palazzi minacciando (e, in alcuni casi, avvolgendo) le abitazioni si mescola al timore di quello che potrebbe succedere 𝗾𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗮𝗿𝗿𝗶𝘃𝗲𝗿𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗹𝗲 𝗰𝗼𝘀𝗶𝗱𝗱𝗲𝘁𝘁𝗲 𝗯𝗼𝗺𝗯𝗲 𝗱’𝗮𝗰𝗾𝘂𝗮.
…ma, al momento, sembra che i pensieri di governi e amministrazioni siano rivolti da tutt’altra parte.

È superfluo in questa sede ribadire il ruolo della vegetazione e degli alberi nell’𝗮𝗿𝗴𝗶𝗻𝗮𝗿𝗲 𝗳𝗼𝗿𝘁𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗹 𝗿𝗶𝘀𝗰𝗵𝗶𝗼 𝗱𝗶 𝗱𝗶𝘀𝘀𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗶𝗱𝗿𝗼𝗴𝗲𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗼 – ce lo hanno insegnato alle scuole elementari; o quanto, di contro, la 𝗱𝗲𝗳𝗼𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗲 𝗰𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶𝗳𝗶𝗰𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝘀𝗲𝗹𝘃𝗮𝗴𝗴𝗶𝗮 aumenti la possibilità di frane – lo abbiamo visto di recente in Emilia Romagna o in Valsusa; come è superfluo ribadire la “𝘁𝗿𝗼𝗽𝗶𝗰𝗮𝗹𝗶𝘇𝘇𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲” 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗿𝗲𝗮 𝗺𝗲𝗱𝗶𝘁𝗲𝗿𝗿𝗮𝗻𝗲𝗮 𝗱𝗼𝘃𝘂𝘁𝗮 𝗮𝗶 𝗰𝗮𝗺𝗯𝗶𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗰𝗹𝗶𝗺𝗮𝘁𝗶𝗰𝗶 – ormai tutti sappiamo che cos’è un ‘medicane’.

La necessità di ampliare la copertura arborea (soprattutto in una regione come la Sicilia, a rischio desertificazione per il 70% del territorio) è conclamata e non più procrastinabile come mitigazione dei danni dei cambiamenti climatici. Invece avviene esattamente il contrario: 𝗼𝗴𝗻𝗶 𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗲𝘁𝘁𝗮𝗿𝗶 𝗱𝗶 𝗯𝗼𝘀𝗰𝗼 𝗲 𝗱𝗶 𝗺𝗮𝗰𝗰𝗵𝗶𝗮 𝗺𝗲𝗱𝗶𝘁𝗲𝗿𝗿𝗮𝗻𝗲𝗮 𝘃𝗲𝗻𝗴𝗼𝗻𝗼 𝗯𝗿𝘂𝗰𝗶𝗮𝘁𝗶 da incendi dolosi, e divampano poi in maniera inarrestabile a causa di una tardiva e contraddittoria gestione del territorio, di una pessima organizzazione delle opere di prevenzione, della maldestra politica della captazione e conservazione dell’acqua, della inefficace registrazione dei terreni attraversati dal fuoco in un catasto che tutti i comuni dovrebbero avere per impedire l’utilizzo dei luoghi bruciati per almeno 5 anni.

La soluzione, per le istituzioni, non è una riflessione sistemica e un’azione preventiva, ma la caccia al piromane (per forza di cose, a disastro avvenuto). Sebbene sia sicuro che dietro la maggior parte degli incendi ci sia la mano dell’uomo, meno certi sono i motivi per cui queste mani agiscono: sicuri di poter affibbiare la responsabilità sempre a pastori, forestali e piloti di canadair in malafede? Perché eliminare dalle possibilità procacciatori di terreni per nuove colate di cemento e nuovi parchi di energie rinnovabili?

Perché la vecchia – ma, purtroppo, a quanto pare, ancora efficace – narrazione del piromane (magari pazzo, forse mafioso, sicuramente di estrazione sociale bassa e che agisce per mero tornaconto individuale) 𝗽𝗲𝗿𝗺𝗲𝘁𝘁𝗲 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗶𝘀𝘁𝗶𝘁𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗱𝗶 𝗹𝗮𝘃𝗮𝗿𝘀𝗶 𝘁𝗼𝘁𝗮𝗹𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗹𝗲 𝗺𝗮𝗻𝗶 𝗱𝗮 𝗼𝗴𝗻𝗶 𝗿𝗲𝘀𝗽𝗼𝗻𝘀𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮̀ e gettare, ancora una volta, ogni colpa sul singolo-retrogrado-del-Sud, ostacolando la presa di coscienza di un problema sistemico e la presa in considerazione di 𝗻𝘂𝗼𝘃𝗲 𝗿𝗼𝘁𝘁𝗲 𝗱𝗮 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗼𝗿𝗿𝗲𝗿𝗲 𝗽𝗲𝗿 𝘁𝘂𝘁𝗲𝗹𝗮𝗿𝗲 𝗻𝗼𝗶 𝘀𝘁𝗲𝘀𝘀𝗶 𝗲 𝗹𝗮 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗮 𝗧𝗲𝗿𝗿𝗮.

Per tornare a ciò che successe a Messina nel 2009, molti ricorderanno che il discorso pubblico sulle cause (e quindi sulle responsabilità) della tragedia sia stato fortemente virato verso un altro grande spauracchio del Sud, l’abusivismo edilizio, gettando nell’ombra gli allarmanti precedenti e la mancanza di prevenzione a favore di una prassi dell’emergenza che porta sempre tanti soldi e tanti voti (come dimenticare le shoccanti risa di giubilo di alcuni a poche ore dal terremoto de L’Aquila?).

In questo genere di contesti, possiamo vedere un’altra faccia del sistema delle grandi opere, in cui il ponte sullo Stretto occupa un posto d’onore: oltre che 𝙖𝙛𝙛𝙖𝙞𝙧𝙚 𝗲𝗰𝗼𝗻𝗼𝗺𝗶𝗰𝗼-𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗼, è anche un grande 𝘀𝗽𝗲𝗰𝗰𝗵𝗶𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗹𝗲 𝗮𝗹𝗹𝗼𝗱𝗼𝗹𝗲. Non solo la propaganda (dai toni sempre più accesi e più eticamente e contenutisticamente bassi) e il tentativo di arginarla fagocitano completamente il discorso e le energie impedendo di fatto di pensare a problemi più urgenti; ma, ancora di più, i fautori del Mostro sostengono, da un lato, che sarà il volano per tutti gli altri interventi e, dall’altro, che se ci fosse il ponte tutti questi problemi sarebbero già risolti.

Tutt’altro che ‘benaltrismo’, una delle domande centrali di tutta la questione sorge proprio da “riflessioni” simili: 𝗶𝗹 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗼 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶𝗼 𝗲 𝗰𝗵𝗶 𝗹𝗼 𝗮𝗯𝗶𝘁𝗮 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗮 𝗱𝗮𝘃𝘃𝗲𝗿𝗼 𝗰𝗼𝘀𝗶̀ 𝗽𝗼𝗰𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗲𝘃𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗶 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗲𝗺𝗼𝘁𝗶, 𝗱𝗲𝗴𝗹𝗶 𝗶𝗻𝗰𝗲𝗻𝗱𝗶, 𝗱𝗲𝗹 𝗱𝗶𝘀𝘀𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗶𝗱𝗿𝗼𝗴𝗲𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗼 – 𝗶𝗻𝘀𝗼𝗺𝗺𝗮, 𝗹𝗮 𝗰𝘂𝗿𝗮 𝗺𝗶𝗻𝗶𝗺𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶𝗼 – 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗮𝘃𝗲𝗿𝗹𝗶 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝘀𝗲 𝗳𝘂𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶 𝗮 𝗺𝗲𝗴𝗮𝗰𝗼𝘀𝘁𝗿𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗱𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗲𝘀𝘀𝗶 𝗺𝗶𝗹𝗶𝗮𝗿𝗱𝗮𝗿𝗶?
Potremmo rispondere tornando ancora al 2009, ricordando chi, tra gli abitanti dei comuni alluvionati, ha sostenuto che il problema fosse l’abbandono, perché «se un posto non produce viene abbandonato»… almeno fino a quando qualcuno non intravede una nuova possibilità di mettere quello ‘spazio’ a profitto.

La nostra lotta passa certamente dall’opposizione al ponte, ma passa anche attraverso la cura dei territori e dei suoi abitanti, passa attraverso un 𝗰𝗮𝗽𝗼𝘃𝗼𝗹𝗴𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗿𝗮𝗱𝗶𝗰𝗮𝗹𝗲 𝗱𝗶 𝗽𝗿𝗼𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗮: vogliamo quello che serve a noi per vivere nei nostri territori, non quello che serve alle merci per transitare da un territorio all’altro; e lo vogliamo perché serve a noi, non perché serve alla circolazione di capitali, sempre tra le stesse mani.
Da decenni l’unica logica di intervento per i territori marginali, apparentemente periferici rispetto ai luoghi centrali per il capitale, è fatta di interventi straordinari e di una gestione attuata prevalentemente attraverso legislazioni speciali.
Nel frattempo l’erosione del territorio è un disastro quotidianamente esperito a cui si sceglie di non dare alcuna risposta sistemica.
𝗩𝗼𝗴𝗹𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗹𝗮 𝗰𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶𝗼 𝗲 𝗹𝗮 𝘀𝘂𝗮 𝗺𝗲𝘀𝘀𝗮 𝗶𝗻 𝘀𝗶𝗰𝘂𝗿𝗲𝘇𝘇𝗮, 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗲̀ 𝗹𝗮 𝗴𝗿𝗮𝗻𝗱𝗲 𝗼𝗽𝗲𝗿𝗮 𝗽𝘂𝗯𝗯𝗹𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗶 𝗰𝘂𝗶 𝗮𝗯𝗯𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗯𝗶𝘀𝗼𝗴𝗻𝗼.

Questa estate e l’inverno che verrà ci ricordano, tra fuoco e acqua, che 𝗶𝗹 𝗽𝗼𝗻𝘁𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗲̀ 𝘂𝗻𝗮 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗶𝘀𝗼𝗹𝗮𝘁𝗮: quello che rifiutiamo è un modello calato dall’alto, che pensa allo Stretto come uno dei tanti punti su una carta geografica da sfruttare e devastare; che pensa al Mediterraneo come a una zona strategica per giocare alla guerra; che pensa alle popolazioni come forza lavoro, forza elettorale o (quando queste vengono a mancare) come ostacolo da superare.
La fase storica in cui ci muoviamo ci insegna che non dobbiamo giocare al ribasso. Che non è il tempo della moderazione. Che è il momento di connettere le lotte e le rivendicazioni. Siamo chiamati a essere radicali. Radicali nei contenuti di quello che diciamo e radicali nelle pratiche che metteremo in campo.
Perché 𝗻𝗼𝗻 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗮𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗮𝗿𝗲 𝗶𝗹 𝗽𝗿𝗼𝘀𝘀𝗶𝗺𝗼 𝗱𝗶𝘀𝗮𝘀𝘁𝗿𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗳𝗮𝗿𝗲 𝗾𝘂𝗮𝗹𝗰𝗼𝘀𝗮; e, se chi dice di occuparsi di noi non lo fa, dobbiamo occuparcene da soli.