di Greta Privitera
Fonte: Corriere della Sera
Quando il dottor Bashar Murad sente l’esplosione, non ci fa molto caso: «Da dodici giorni, l’esercito israeliano bombarda senza sosta, i boati non ci sorprendono più», racconta al telefono. Un collega paramedico gli manda un messaggio: «Hanno colpito l’Al-Ahli Hospital. E’ una strage». «La nostra base operativa si trova a due chilometri e mezzo dall’ospedale, più passavano i minuti e più capivamo che eravamo davanti al massacro più grande della storia di Gaza», continua dal suo ufficio il responsabile della Palestine Red Crescent Society della Striscia.
«A quel punto abbiamo mandato tutti i nostri paramedici e più di cinquanta ambulanze sul posto per evacuare i feriti e portarli all’ospedale di Al-Shifa — il più grande — che dista due chilometri da lì. Cerchiamo di fare il possibile, ma ho paura che siamo davanti a un numero gigantesco di morti e feriti».
Poi, racconta l’inferno: «Nel cortile c’erano centinaia di corpi sventrati. Al-Ahli Hospital era diventato il rifugio di moltissimi gazawi che in questi giorni hanno perso la casa sotto le bombe. Adesso c’è sangue dappertutto. Fuoco. Ci sono decine di bambini a terra, squarciati, morti accanto ai loro pochi giocattoli. Gli unici che erano riusciti a portare con loro». Racconta di uomini e donne che urlano disperati i nomi dei figli. Li cercano nel buio: « Che cosa abbiamo fatto di male per meritare anche questo?», continua il dottor Murad.
La sua voce viene coperta dal suono delle sirene delle ambulanze e dei colleghi che stanno coordinando tutti gli spostamenti: «Manca l’elettricità, manca l’acqua, manca il carburante, i medicinali. In queste condizioni è quasi impossibile curare i feriti. Non ho la forza né il tempo per arrabbiarmi, ma in quell’ospedale non si nascondevano i miliziani di Hamas. C’erano delle persone senza niente, disperate. E c’erano i pazienti. Non posso immaginare la paura».
«Siamo davanti a un genocidio. Secondo la Convenzione di Ginevra, gli ospedali dovrebbero essere il luogo più sicuro del mondo, e invece sono morti tutti. Il mondo deve fare qualcosa. Non c’è rifugio per chi vive qui», scrive Yousef Mema, un giovane infermiere. Murad vede la rabbia delle persone che si sentono abbandonate dalla comunità internazionale. «Quanti bambini di Gaza devono ancora morire per un cessate il fuoco? Perché l’Europa e gli Stati Uniti non si fanno sentire? Siamo in trappola, ci chiedono di evacuare gli ospedali ma non abbiamo né mezzi, né le possibilità per farlo. Non ci sono posti nelle strutture del Sud del Paese e noi non abbandoniamo la nostra gente. È assurdo che non abbiano ancora aperto il valico di Rafah . Ci serve tutto per sopravvivere e per curare chi sta morendo».
Un paramedico, collega del dottor Murad, piange metre gli racconta quello che ha visto. «Io piango ogni giorno, lo faccio quando non mi vede nessuno. Ho cinquant’anni e sono nato e cresciuto a Gaza. Mi chiedo chi avrà sulla coscienza questo disastro», conclude il dottore.