Calabria, media e potere: “Maduli e soci sono nervosi e si inventano nuovi bavagli”

Oggi che è esploso il caso degli editori di LaC che controllavano e intercettavano i giornalisti in redazione, torna di grande attualità quanto scriveva meno di un anno fa il giornalista Agostino Pantano rispetto ai metodi di questa gentaglia. 

dalla pagina FB di Agostino Pantano, ex giornalista LaCNews – post del 15 gennaio 2024 – 

DIMISSIONI DA LAC, L’AZIENDA MINACCIA DI QUERELARMI PERCHE LA MIA COSCIENZA CONTESTA L’INGERENZA DELLA PROPRIETà: SONO NERVOSI E SI INVENTANO UN NUOVO BAVAGLIO AL GIORNALISMO E AI GIORNALISTI

Ritorno a scrivere, spero per l’ultima volta, di LaC e lo faccio per fatto personale: allo scadere dei 5 giorni solari previsti per legge, Diemmecom ha risposto (senza la firma del suo presidente o di un suo delegato) alla mia lettera con cui comunicavo le dimissioni immediate e per giusta causa in nome della mia coscienza che non ha accettato la linea editoriale rappresentata dal nuovo direttore.

Tralascio per ora l’arrampicata sugli specchi con cui si accettano le dimissioni (e ci mancherebbe) ma si tenta di negarmi, di fatto, quelle poche decine di euro (che mi toccano per legge in base alla clausola di coscienza che io ho rivendicato): penso che questa loro replica non nasconda solo l’obiettivo micragnoso del risparmio sulle spese, ma contenga degli avvisi – minacce – del tutto irricevibili, di cui parlo ora in pubblico per far capire non solo che non mi faccio intimidire (sono pur sempre un giornalista e faccio i conti con minacce, anche bislacche, da una vita), ma pure per chiarire a tutti quanto alto possa essere arrivato il degrado morale insufflato, vissuto, patito in quell’ambiente di lavoro.

Nella lettera dell’azienda fra l’altro si legge: «Si contestano fermamente tutte le asserzioni da lei svolte nella succitata missiva che denotano aspetti calunniosi e denigratori in danno di questa società, dell’editore, nonché del direttore responsabile e del direttore editoriale per i quali ci si riserva ogni opportuna azione conseguenziale».
E, se non bastasse l’accusa di essere un falsario, più avanti si legge: «L’azienda si riserva ogni ulteriore azione, anche a titolo risarcitorio, volta alla tutela della propria immagine e dei propri interessi in tutte le sedi competenti, compresa quella giudiziale».
E’ chiara l’impronta esclusivamente aziendalista e padronale, e non più tecnica e lucida, che il testo trasmessomi denota nel momento in cui l’azienda “minaccia” anche a nome del direttore responsabile (che è un giornalista).
Mi costringeranno a scrivergli con l’avvocato, e lo farò vista la formale dichiarazione di guerra che loro (e non io) hanno lanciato, ma intanto capite che non posso qui in pubblico far cadere la cosa.

Agostino Pantano, il giornalista Agostino Pantano, ha le prove delle sue “asserzioni” e del resto, prima di finire in Tribunale – vista le plurime minacce ricevute, inizio a non escluderlo – la Proprietà dovrebbe ricordare bene il rigore con cui Agostino Pantano, il giornalista Agostino Pantano, documenta e conserva le prove di quel che asserisce, non solo come normale metodo di lavoro messo in atto anche nel mio ultimo impiego, ma anche nei fallimenti societari (3) in cui sono riconosciuto creditore e quel che ne è conseguito, pure rispetto a taluni odierni pupilli ( torbidamente rivalutati).

Può un lavoratore, nel momento in cui è costretto a licenziarsi – e per questo è considerato dalla legge ancora più parte debole – essere minacciato di finire in tribunale?
Può un giornalista, nel momento in cui circostanzia i fatti che hanno turbato la sua coscienza, essere accusato di falsità, denigrazione?

Certo che può, ma questi mi appaiono due precedenti rari, che magari faranno giurisprudenza, ma che io sottopongo alla vostra valutazione – e a questo punto anche a quella dei miei ex colleghi – in modo da comprendere la cultura del lavoro che questa azienda editoriale calabrese propala, mentre si erge in pubblico a paladina del legalitarismo sacerdotale, nonché il grado di incattivimento del dibattito (interno ?) sulla nuova linea editoriale che io non ho abbracciato.

Purtroppo, il datore di lavoro – che si sente denigrato dalle critiche documentate di un lavoratore – non indica minimamente quali sarebbero le parole calunniose che io avrei usato limitandosi a scrivere, riferendosi alle 8 pagine della mia lettera, «se ne contesta integralmente il contenuto», ritenendo che «Non sussista alcun legittimo motivo di risoluzione del rapporto di lavoro», e definendo «Del tutto insussistenti i presupposti indicati dalla norma quali legittimanti il lavoratore ad ottenere la risoluzione del rapporto per fatto dell’editore».

Non hanno neanche affrontato lo sforzo di difendere compiutamente le scelte che io ho contestato, dopo l’incontro editore-direttore responsabile-giornalisti; neanche un rigo della loro smilza paginetta è dedicato a difendere il rapporto nuovo e perverso tra giornalisti e proprietà, impegnati come sono invece a propagandare canali tv spaziali, assumendo giornalisti “dai super poteri” (arrivano a dire letteralmente in uno spot che va ancora in onda).

Sarebbe già grave e illiberale tutto questo, se non ci fosse il colpo di coda assolutamente mortificante rispetto alla qualità di tutto il lavoro – professionalizzato nel caso del giornalismo – quando nella lettera si legge : «pertanto, l’azienda accetta le sue dimissioni ma contesta la giusta causa e si rappresenta sin d’ora formalmente che ogni eventuale azione giudiziaria sarà considerata del tutto strumentale e temeraria e, pertanto, non si esiterà a sconfessare la fondatezza nelle sedi opportune».

Quindi, non sconfessano (oggi) la fondatezza di quel che dico, ma derubricano a capriccio la tutela del mio diritto sacrosanto, tentando di distogliermi dal normale corso della controversia legale – se ci sarà – minacciando di considerarla «temeraria», ovvero inventata anche innanzi ad un probabile futuro giudice per tentare di non darmi quanto mi spetta.

Beh, siamo davanti ad un avvertimento preventivo, ridicolo se non si riferisse a cose serie come la tutela della coscienza del giornalista e del diritto al lavoro, comunque del tutto sproporzionato visto che io mi sento – e chi mi conosce lo sa – l’ultima ruota del carro, il più infinitesimale dei granelli di sabbia, la più insignificante delle gocce nel mare;

arrivo quindi a chiedermi, di fronte a questa offensiva antidemocratica e personale: ma non è che si sono sentiti toccati da quella parte della mia lettera in cui, giustamente, gli dicevo che bisogna replicare alle argomentazioni dell’ex direttore Pasquale Motta, che chiamavano in causa la libertà di tutti i giornalisti della redazione, invece di giocare misteriosamente al gioco del silenzio come si fa con gli scolari quando non hanno chi li controlla (o consiglia bene) e li si lascia col desiderio di scoprire … «i coglioni»?