Guerra in Medio Oriente, cosa c’è da sapere per capire l’escalation

(di Milena Gabanelli e Maria Serena Natale – corriere.it) – L’8 ottobre 2023, all’indomani del più feroce eccidio di ebrei dai tempi della Shoah, il presidente iraniano Ebrahim Raisi parla al telefono con Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, e Ziyad Al Naklhalah, leader della Jihad islamica in Palestina. Il senso del discorso fra i tre è che Allah è dalla parte del popolo palestinese, ma soprattutto dalla loro: la Repubblica islamica d’Iran, sciita, e le due principali formazioni integraliste sunnite responsabili della mattanza del 7 ottobre condividono interessi che sono sempre stati più forti della divisione fondamentale del mondo musulmano, quella fra sciiti e sunniti. Convergenza che, un anno dopo quella telefonata, risalta ancor più sul campo di battaglia dove Hamas combatte dalla stessa parte di Hezbollah, la longa manus dell’Iran in Libano.
Entrambe le formazioni nascono negli anni Ottanta, hanno una forte matrice religiosa e pongono l’Islam a fondamento dello Stato. Entrambe sono classificate come organizzazioni terroriste dalla comunità internazionale, Hezbollah anche dalla Lega araba. Entrambe condividono con l’Iran un obiettivo: cancellare Israele dalla carta geografica.

Hamas, l’abbraccio dell’Iran

Hamas si afferma a Gaza allo scoppio della prima intifada nel 1987 come filiazione palestinese della Fratellanza Musulmana egiziana, capofila dell’internazionale fondamentalista sunnita. È sopportata dagli israeliani in quanto contro-potere emergente, retto dallo sceicco Ahmed Yassinrispetto alla laica Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat e alla sua espressione politica, il partito FatahSupportata dall’Iran, che la considera preziosa spina nel fianco del nemico sionista, e all’inizio anche dall’Arabia Saudita. Sferra attentati nella Striscia occupata, fa assistenza sociale e si contrappone alla corruzione di Fatah. Dopo il ritiro unilaterale israeliano del 2005 vince le elezioni del 2006, chiude militarmente i conti con Fatah confinandolo in Cisgiordania e dal 2007 assume il pieno controllo di Gaza. I soldi arrivano in contanti attraverso tunnel e valigie diplomatiche, pure con il tacito assenso del governo Netanyahu, o in criptovaluta per aggirare le sanzioni. Accanto all’Iran, alle rimesse dei palestinesi e ai contributi delle organizzazioni caritatevoli all’estero, la principale fonte di finanziamenti è il Qatar che oggi fa da mediatore nella crisi, e dal 2014 ha versato centinaia di milioni di dollari, fino a 30 al mese per far funzionare l’unica centrale elettrica della Striscia, ora spenta. In totale 2 miliardi di dollari sarebbero stati ufficialmente destinati ad assistere la popolazione, ma per lo più dirottati sul sistema militare dei terroristi. L’abbraccio di Hamas con Teheran si fa sempre più stretto mentre con Riad, che non manda finanziamenti diretti ma consente le raccolte fondi sul proprio territorio, il rapporto è ambiguo e nel tempo si erode.

L’equilibrismo saudita

L’Arabia Saudita, che custodisce le due città sante dell’Islam (La Mecca e Medina), si pone come potenza leader della galassia sunnita e soprattutto resta il grande rivale di Teheran per l’egemonia regionale. L’ultima rottura diplomatica è durata dal 2016 al 2023, quando la mediazione cinese ha portato al ripristino delle relazioni. Riad stava accelerando anche verso la normalizzazione dei rapporti e la firma degli Accordi di Abramo con Tel Aviv quando il massacro del 7 ottobre ha fermato tutto. La successiva mobilitazione delle piazze arabe contro lo Stato ebraico per la carneficina di Gaza ha reso la strada ancora più in salita. Con gli Stati Uniti primo alleato di Israele il rapporto è strategico, petrolio e geopolitica, tra fasi ad alta tensione che non hanno mai incrinato la collaborazione. Sul piano interno la graduale laicizzazione, voluta dalla monarchia, ha raffreddato i rapporti del clero wahhabita con la Fratellanza Musulmana della quale Hamas è emanazione. Questo continuo sforzo di tenere insieme elementi contraddittori e potenzialmente conflittuali spiega perché oggi il Regno saudita non possa più sostenere Hamas ma debba comunque vincolare il rilancio delle relazioni con Israele alla risoluzione della questione palestinese.

Hezbollah, la longa manus dell’Iran

Le origini di Hezbollah risalgono alla guerra civile libanese durante la quale, nel 1982, «il Partito di Dio» si stacca dalle milizie sciite di resistenza e si dà due obiettivi: fondare uno Stato islamico sul modello della Repubblica khomeinista iraniana nata dalla rivoluzione del 1979, e cacciare l’esercito israeliano rientrato in Libano nel 1982. Il primo si perderà per strada, il secondo sarà raggiunto con il ritiro delle truppe di Tel Aviv dal Sud nel 2000. Da allora non ha mai smesso di bersagliare Israele con lanci di razzi e incursioni terroristiche. Da gruppo paramilitare Hezbollah diventa partito politico, nell’eterna crisi economica e istituzionale libanese crea un’economia parallela, gestisce opere pubbliche e attività commerciali, prende posto in Parlamento, va al governo. Si arma, addestra e finanzia con l’appoggio di Teheran, stimato dagli americani in 700 milioni di dollari l’anno. Dal 2015 il Congresso degli Stati Uniti ha autorizzato sanzioni contro individui e banche estere che fanno arrivare fondi a Hezbollah e nel 2021 il Tesoro ha preso di mira una rete internazionale di riciclaggio di decine di milioni di dollari. A tutti gli effetti uno Stato nello Stato, dotato di arsenali e capacità militari superiori alla maggior parte dei Paesi arabi, il Partito di Dio disporrebbe di almeno 50 mila effettivi. Come Hamas, conta su una rete capillare e fortificata di tunnel e depositi sotterranei, ma rispetto ad Hamas, nelle parole del ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant, «è dieci volte più forte». I rifornimenti di armi made in Iran passano da Iraq e Nord della Siria; con l’intensificarsi dei più recenti raid israeliani hanno preso anche la via del mare imbarcati nel porto siriano di Latakia. La Siria è l’altro grande sponsor: al termine del conflitto civile aveva mantenuto in Libano una forza di pace poi cacciata nel 2005 dai moti popolari della Rivoluzione dei Cedri, esplosa dopo l’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri.

Le milizie della «resistenza»

Per capire il legame tra Teheran e l’Hezbollah occorre tornare al 1980, quando l’Iran è attaccato dall’Iraq di Saddam Hussein. Saddam, nazionalista laico sunnita, lancia una brutale repressione interna dei curdi e degli sciiti, considerati «arruolabili» dalla teocrazia iraniana. Negli otto anni di guerra che seguono l’invasione il regime degli ayatollah, da aggredito, si ritrova isolato: l’unico Stato della regione apertamente schierato al suo fianco è la Siria degli Assad (sciiti alauiti). È allora che l’Iran matura la decisione di circondarsi di alleati di comprovata lealtà, come la Siria e Hezbollah, per realizzare i propri piani di difesa ma anche di «esportazione» della rivoluzione islamica: è il primo nucleo di quello che diventerà «l’asse della resistenza».
L’alleanza si allarga fino a comprendere le milizie sciite irachene riemerse dall’ombra dopo la deposizione di Saddam da parte della coalizione a guida americana nel 2003gli houthi in Yemen, dove dal 2014 si combatte un’altra terribile guerra civile che è un conflitto per procura tra Iran e Arabia Saudita; le filiali di Hezbollah in Pakistan e Afghanistan dove operano anche le Brigate Fatemiyoun che hanno combattuto in Siria contro il sedicente Stato islamico. Una mezzaluna sciita con forti componenti sunnite come Hamas e la Jihad islamica in Palestina, che mette in allarme leadership musulmane e governi arabi moderati dalla Giordania alle monarchie del Golfo. E non piace all’altro gigante sunnita, la Turchia, secondo esercito Nato, che dopo il 7 ottobre si è schierata con Hamas e contro Israele, ma più a parole che a fatti, poiché il suo obiettivo è quello di contenere le ambizioni di Teheran, soprattutto sul nucleare.
Per tutti è lotta di potere. Netanyahu vuole eliminare Hamas e Hezbollah dai suoi confini per difendere, sostiene, il diritto di Israele a esistere in sicurezza. In questi 12 mesi ogni tentativo diplomatico per arrivare ad un cessate il fuoco è fallito. Sullo sfondo, calpestata tra roboanti proclami e mani sul cuore, c’è la legittima aspirazione di un popolo all’autodeterminazione, usata dal mondo arabo-musulmano come comoda bandiera. E a pagare il prezzo finora oltre 40 mila palestinesi.